Marketing del farmaco: come le aziende farmaceutiche condizionano la nostra vita

Marketing del farmaco: come le aziende farmaceutiche condizionano la nostra vita

di Paolo Migone (Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane – www.psicoterapiaescienzeumane.it) – Per ACSI Magazine

Le grandi multinazionali farmaceutiche – Big Pharma, come vengono chiamate negli Stati Uniti – permeano ogni aspetto della medicina, condizionandone la cultura alla luce dei propri interessi che, come è naturale, non mirano solo alla salute delle persone ma soprattutto all’aumento dei loro guadagni. Per le case farmaceutiche, al limite, più malati ci sono, meglio è, perché questo permette maggiori profitti. Nei Paesi in cui non vi è in Servizio Sanitario Nazionale ma in cui la medicina è privatizzata, la situazione è ancora peggiore, perché vengono prescritti più farmaci, incentivati più frequenti esami di laboratorio spesso inutili, un maggior utilizzo dei Servizi, e così via. Questi meccanismi perversi fanno sì che la medica privata costi al cittadino il doppio di quella pubblica, dato questo su cui concordano tutti gli economisti, sia “di destra” che “di sinistra”, e non è detto che le prestazioni della medicina privata siano migliori.

Questi condizionamenti si fanno sentire in modo particolare nella psichiatria. Non a caso si è molto parlato del disease mongering, cioè della “invenzione” di nuove malattie[1], ed è stato osservato che l’abbassamento delle soglie diagnostiche nel recente DSM-5 (cioè della quinta edizione dell’influente manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association)[2] può rientrare in questa logica: abbassando le soglie per fare diagnosi, le malattie aumentano e vengono prescritti più farmaci (sono stati dimostrati i legami che hanno con le case farmaceutiche molti membri delle task force dei DSM). Si pensi solo all’inflazione dei disturbi depressivi, termine con cui a volte si intendono anche certi malesseri esistenziali e che i medici di base trattano con gli antidepressivi, senza dedicare tempo all’ascolto del paziente e al significato della sua sofferenza. Un libro di due importanti studiosi americani – intitolato La perdita della tristezza. Come la psichiatria ha trasformato la tristezza in depressione[3]– dimostra come oggi chi prova tristezza (un sentimento importante e spesso utile) rischia di venire etichettato come depresso, quindi malato, e di dover assumere farmaci, impoverendo il significato della sua esistenza. Anche certe forme di lutto possono essere etichettate come malattia.

Vi sono alcune cose sui farmaci antidepressivi che vanno raccontate perché non sempre le riviste specialistiche, essendo quasi tutte finanziate dalle case farmaceutiche, sono libere di pubblicizzarle. Va precisato però, onde non creare fraintendimenti, che gli antidepressivi non vanno scambiati per tutti gli psicofarmaci, alcuni dei quali (si pensi agli antipsicotici) sono molto efficaci e meritano un discorso a parte.

Come è noto, una trentina di anni fa è comparsa una nuova generazione di farmaci antidepressivi, gli inibitori selettivi del della ricaptazione della Serotonina (Selective Serotonin Reuptake Inhibitors [SSRI]), che hanno meno effetti collaterali ma che sono più costosi dei precedenti antidepressivi (i triciclici), ai quali sono accomunati da un’efficacia simile. Questi farmaci si sono rapidamente diffusi in tutto il mondo anche grazie a grosse campagne pubblicitarie (si ricorderanno le copertine di noti settimanali che pubblicizzavano best-sellers come La pillola della felicità [Listening to Prozac][4], e così via – il Prozac, il primo SSRI a essere prodotto, è stato uno dei farmaci più venduti nella storia della medicina). Diversi milioni di americani abitualmente assumono SSRI, inclusi tanti giovani sotto i 18 anni, con un passaggio di denaro dai cittadini alle case farmaceutiche che è di proporzioni enormi.

Ma quanto sono efficaci questi farmaci? Non si può certo entrare in questo argomento raccontando aneddoti o esperienze personali, ma occorre fornire “evidenze” ben controllate secondo la logica della Evidence-Based Medicine (EBM), cioè guardando attentamente gli studi clinici controllati randomizzati (Randomized Controlled Trials [RCT]). Va ricordato brevemente cosa sono gli RCT. Un RCT consiste nel somministrare a un gruppo di volontari scelti a caso (cioè “randomizzati”) un farmaco che si vuole studiare, e a un altro gruppo “di controllo”, sempre di volontari scelti a caso, un placebo (cioè una sostanza inerte della stessa forma, colore, odore e sapore del farmaco), e poi nel paragonare i risultati con un’unica scala di valutazione (ad esempio la Scala di Hamilton per la Depressione). Va aggiunto che le somministrazioni devono essere “in doppio cieco” (double blind), cioè né il paziente né il medico conoscono quale è il farmaco e quale è il placebo, altrimenti le aspettative inconsce influenzano il risultato (il doppio cieco serve appunto per controllare l’effetto placebo, che è molto alto in tutte le terapie, al punto che alcuni affermano che il placebo è uno dei “farmaci” più potenti che esistano in psichiatria).

Gli RCT dovrebbero essere utilizzati dai medici come una guida, un po’ come i marinai leggono le previsioni del tempo. Irving Kirsch, uno psicologo americano, ha voluto andare a fondo su questo problema, risalendo alla fonte delle informazioni – non sempre pubblicate – utilizzate per l’approvazione degli SSRI negli Stati Uniti. Questo è stato possibile grazie al Freedom of Information Act, una legge americana che tutela il diritto di accesso alle informazioni da parte dei cittadini. Kirsch si è rivolto alla Food and Drug Administration (FDA), l’organismo federale che controlla l’approvazione dei farmaci, e ha chiesto di poter vedere tutti gli RCT sottoposti per l’approvazione dei sei antidepressivi più frequentemente prescritti nella popolazione. Questi erano i seguenti (tra parentesi vi sono i nomi con cui sono stati commercializzati in Italia, e data la continua commercializzazione di nuovi prodotti l’elenco può essere incompleto): Citalopram (Elopram, Felipram, Feliximir, Frimind, Kaidor, Lampopram, Marpram, Percital, Pramexyl, Ricap, Seropram, Sintopram, Verisan – del Citalopram è stato poi prodottol’isomerolevogiroEscitalopram, commercializzato come Cipralex edEntact), Fluoxetina (Azur, Clexiclor, Cloriflox, Deprexen, Diesan, Flotina, Fluoxeren, Fluoxin, Grinflux, Ipsumor, Prozac, Serezac, Zeredien, Zafluox), Nefazodone (Reseril, non più in commercio perché ha provocato alcune morti da danno epatico), Paroxetina (Daparox, Eutimil, Sereupin, Seroxat), Sertralina (Serad, Tatig, Zoloft) e Venlafaxina (Efexor, Faxine, Zarelis) (un settimo SSRI, non incluso nella ricerca di Kirsch, è la Fluvoxamina [Fevarin, Dumirox, Maveral]). La FDA dovette consegnare la documentazione su 47 RCT sponsorizzati dalle case farmaceutiche per far approvare questi sei SSRI. Kirsch esaminò questi dati e pubblicò i suoi risultati nel 2002, e poi nel 2009 in un libro[5]. Vari farmacologi furono invitati a discutere criticamente la ricerca di Kirsch, e nessuno ne mise in dubbio i risultati; alcuni addirittura ammisero che quello che aveva scoperto Kirsch era il loro “piccolo sporco segreto” (dirty little secret)[6].

Ebbene, cosa scoperse Kirsch? Il miglioramento dovuto al placebo era dell’82%, e quindi che solo il 18% della risposta positiva era dovuta al farmaco. Inoltre, anche se il risultato raggiungeva la significatività statistica, la superiorità del farmaco era minima, meno di 2 punti della Scala di Hamilton, il che significa che non vi era una “significatività clinica” (vi è una differenza tra significatività “statistica” e significatività “clinica”). Scoprì anche che in più della metà (il 57%) degli studi finanziati dalle case farmaceutiche gli antidepressivi erano risultati uguali o inferiori al placebo, e gran parte di questi dati non erano mai stati pubblicati. Inoltre non vi era un aumento di efficacia parallelamente all’aumento della dose di SSRI, altro dato che depone in favore dell’ipotesi della loro efficacia sostanzialmente come placebo.

Va ricordato che lo studio di Kirsch riporta dati medi, per cui è possibile che un SSRI, anche se poco efficace nella maggioranza dei casi, sia invece efficace con determinanti pazienti, ad esempio con depressi gravi, tanto è vero che alcuni studi dimostrano che i pazienti più gravi rispondono meglio ai farmaci. Ma i documenti della FDA contraddicono questa ipotesi e dimostrano che anche molti pazienti gravi traggono grande vantaggio dal placebo. Non solo, ma se ad esempio la differenza fosse di 4 punti per la metà dei pazienti (punteggio che comunque sarebbe ancora basso), allora nell’altra metà l’effetto dell’antidepressivo sarebbe addirittura inferiore al placebo.

Kirsch trovò anche che, contrariamente a quanto verrebbe da pensare, la stabilità della risposta al farmaco non è maggiore di quella al placebo, anzi, all’uso del farmaco seguono maggiori ricadute. Inoltre è possibile che l’effetto del farmaco (seppur piccolo) possa essere dovuto semplicemente a un potenziamento dell’effetto placebo: infatti, come sanno i ricercatori, il doppio cieco è spesso un falso, nel senso che gli effetti collaterali sono ben conosciuti dai pazienti per cui molti di loro presto si accorgono che stanno assumendo il farmaco, col risultato che in realtà migliorano per l’effetto placebo. Il fatto quindi che in psichiatria gli RCT non siano proprio basati sul doppio cieco, e neppure sul singolo cieco – nel “singolo cieco” (single blind) il medico sa se somministra il farmaco o il placebo, e il paziente non lo sa – bensì assomiglino alla pratica clinica quotidiana, è un fatto che preoccupa molti ricercatori, alcuni dei quali hanno preso provvedimenti. Moncrieff, Wessely & Hardy, ad esempio, in uno studio pubblicato nel 2004 sulla prestigiosa Cochrane Library hanno voluto verificare quanto fosse effettivo il “doppio cieco” nelle ricerche sugli antidepressivi: esaminando gli studi (751 pazienti) che usavano un “placebo attivo” (cioè una sostanza che simula gli effetti collaterali dell’antidepressivo ma non è un antidepressivo) emerse che la “dimensione del risultato” (effect size) dell’antidepressivo, già molto piccola, si riduce addirittura di più della metà (da 0.39 a 0.17, per la precisione).

E come mai i lavori che riportano effetti positivi di un farmaco hanno molta più probabilità di essere pubblicati rispetto a quelli che riportano effetti negativi o nulli, producendo un importante effetto di distorsione? La risposta è semplice: dato che sono le case farmaceutiche che finanziano gli studi, non vogliono una pubblicità negativa del farmaco che stanno cercando di lanciare sul mercato; in molti casi viene addirittura esplicitato a livello contrattuale che lo studio potrà essere pubblicato solo col permesso della casa farmaceutica. Non a caso una quindicina di anni fa i direttori di alcune prestigiose riviste mediche hanno deciso di richiedere che tutte le sperimentazioni cliniche vengano registrate in un database internazionale prima della loro attivazione e non dopo, a seconda dei risultati ottenuti, pena il divieto di pubblicare le ricerche nelle loro riviste. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sostenuto questo appello. Questi ultimi sviluppi quindi fanno sperare che il fattore di distorsione diminuisca, anche se va ricordato che non tutte le riviste hanno aderito a questo accordo.

Vorrei aggiungere una ulteriore osservazione: ammettendo pure che gli antidepressivi SSRI siano molto efficaci, occorre vedere a chi vengono somministrati. Gli effetti collaterali, anche se possono essere sgradevoli, sono però inferiori a quelli degli antidepressivi della generazione precedente (i triciclici), e questo li rende molto maneggevoli (tanto che si potrebbe dire che il pregio degli SSRI non sia tanto quello di “fare bene”, quanto quello di “non fare male”, quindi di lasciar libero spazio all’effetto placebo, un po’ come accade per quei tanti farmaci quasi sempre inutili – le vitamine, i ricostituenti, ecc. – che spesso vengono prescritti, più o meno consapevolmente, a scopo suggestivo, anche se ciò comporta una inutile spesa). La maneggevolezza degli SSRI, e anche il fatto che sono rimborsabili, ne facilita grandemente l’uso per tantissime sintomatologie caratterizzate da sofferenza psicologica, mali esistenziali, ecc., insomma tutti quei quadri che facilmente vengono etichettati in senso lato come “depressivi” sia da medici generici che da pazienti. La pronta somministrazione di un antidepressivo, supportata dalla efficacia propagandata dai rappresentanti farmaceutici, rassicura molto e razionalizza il senso della visita specialistica, facendo tornare a casa il paziente nelle migliori condizioni per essere soggetto al benefico effetto placebo. Insomma, per questa categoria di pazienti, che sono poi una buona parte di chi si rivolge a uno psichiatra – e anche di quei 2/3 dei pazienti del medico di famiglia di cui parlava Michael Balint[7], che hanno prevalentemente problemi psicologici – si può fare l’ipotesi che gli SSRI funzionino in buona parte grazie all’effetto placebo.

Va ricordato che i dati di Kirsch sono stati comprovati da numerose ricerche successive – pubblicate in riviste importanti quali ad esempio Lancet, il New England Journal of Medicine, ecc., cioè le riviste più prestigiose al mondo – che sarebbe troppo lungo elencare qui, per cui rimando ad altri lavori per una maggiore documentazione[8].

Una pratica psichiatrica basata esclusivamente sull’uso di farmaci non è altro che un aspetto di una più vasta cultura medica altrettanto basata, come sosteneva Balint, su una concezione antiscientifica della malattia, che ignora la psicodinamica dell’insorgenza della sintomatologia e le importantissime implicazioni del rapporto interpersonale; ironicamente, sono proprio gli RCT, bandiera della cultura scientifica, quelli che hanno dimostrato in modo inequivocabile l’effetto placebo, cioè l’importanza del rapporto interpersonale e in senso lato di un approccio psicoterapeutico. È per questo che i dati di ricerca che depongono in favore della poca efficacia degli antidepressivi non dovrebbero scoraggiare lo psichiatra, anzi, dovrebbero dargli più fiducia perché dimostrano quanto sia importante il suo ruolo come persona (è anche lui un importante “farmaco”, come diceva Balint), dimostrano insomma ancora una volta che la psichiatria non è una attività “tecnologica”[9] ma un rapporto umano profondo e significativo, dove l’ascolto della sofferenza e della storia di vita ha dirette ripercussioni terapeutiche. Del resto, come è stato dimostrato da innumerevoli ricerche, sappiamo che nella depressione la psicoterapia è in media superiore ai farmaci (soprattutto nel lungo periodo, dato che i farmaci possono indurre una forma di dipendenza e predisporre a un aumento di recidive e alla cronicità[10]).

E se la psicoterapia è più efficace, quale tipo di psicoterapia è migliore delle altre? Vanno segnalate a questo proposito recenti ricerche che sembrano modificare un dato che appariva assodato, quello della maggiore efficacia delle terapie cognitivo-comportamentali. Questo dato è un artefatto dovuto sia al maggior numero di studi compiuti sulle terapie cognitivo-comportamentali, sia al fatto che si prestano meglio al vaglio della ricerca empirica. Ma negli anni recenti, con l’entrata in forze del movimento psicoanalitico nell’arena della ricerca, sono emersi sempre più dati che sembrano capovolgere le sorti. Ad esempio Shedler, in una importante meta-analisi pubblicata nel n. 1/2010 di Psicoterapia e Scienze Umane[11] in contemporanea con gli Stati Uniti (dove è apparsa su una rivista dell’American Psychological Association), dimostra che la “dimensione del risultato” delle terapie psicodinamiche varia da 0.69 a 1.46, mentre quella delle terapie cognitivo-comportamentali varia da 0.58 a 1.0. Non solo, ma dopo una terapia psicodinamica vi sarebbero anche meno ricadute e il miglioramento aumenterebbe nel tempo, come se si mettessero in moto processi psicologici che evolvono autonomamente; inoltre, cosa estremamente interessante, in diversi studi è stato dimostrato che quando le terapie non psicodinamiche sono efficaci ciò avviene in parte perché i terapeuti non psicodinamici utilizzano tecniche che da sempre caratterizzano l’approccio psicodinamico. Pare quindi che crolli un altro mito[12]. A proposito, se la “dimensione del risultato” delle terapie psicodinamiche varia da 0.69 a 1.46, può servirci conoscere, come elemento di paragone, la “dimensione del risultato” dei farmaci antidepressivi: è imbarazzante dirlo, ma è estremamente più bassa, varia da 0.17 a 0.31. È sconcertante quindi che, nonostante abbondanti prove scientifiche mostrino con chiarezza la superiorità della psicoterapia per molti disturbi depressivi e d’ansia, quasi tutti gli psichiatri – in quella che si può definire senza mezzi termini un malpractice di massa, a tutto vantaggio delle case farmaceutiche – continuino a prescrivere solo farmaci e non suggeriscano ai pazienti una psicoterapia[13].

Un recente articolo pubblicato da World Psychiatry, l’autorevole organo dell’Associazione mondiale di psichiatria, dipinge molto bene lo stato in cui versa oggi la psichiatria. Alcuni ricercatori[14] hanno voluto verificare se un aumento delle cure può ridurre della prevalenza dei disturbi mentali. Sono stati analizzati attentamente i dati di un periodo di 25 anni, dal 1990 al 2015, provenienti da quattro Paesi industrializzati (Australia, Canada, Inghilterra e Stati Uniti), ed è emerso che la prevalenza dei disturbi dell’umore e d’ansia non è diminuita, anzi in alcuni casi è aumentata, nonostante vi sia stato un consistente e diffuso aumento di terapie psichiatriche, in particolare di farmaci antidepressivi. Gli autori hanno preso in esame diverse ipotesi per spiegare questo paradosso, e non hanno trovato alcuna prova del fatto che la mancanza di miglioramento sia dipesa da un aumento di fattori di rischio intervenuti in questi 25 anni, e neppure prove del fatto che i disturbi mentali siano stati resi più visibili da una accresciuta consapevolezza e segnalazione dei disturbi psicologici. L’ipotesi che invece è maggiormente supportata dai dati disponibili è che gran parte delle cure offerte alla popolazione sono di bassa qualità. In altre parole, un aumento della quantità di cure non significa necessariamente un aumento della loro qualità; verrebbe insomma praticata una “cattiva psichiatria” (sull’attuale crisi della psichiatria, si veda anche il saggio di Marsha Angell “L’epidemia di malattie mentali e le illusioni della psichiatria”[15], pubblicato sul n. 2/2012 di Psicoterapia e Scienze Umane, che ha fatto molto discutere anche perché l’autrice, che insegna ad Harvard, non è l’ultima venuta avendo diretto il New England Journal of Medicine, la rivista medica forse più importante al mondo).

Vale la pena raccontare a questo punto un recente scandalo, emblematico del condizionamento delle case farmaceutiche nella ricerca scientifica. Il 16 settembre 2015 il British Medical Journal (BMJ) ha pubblicato una ricerca[16] che riesamina il famoso “Studio 329” di Keller e collaboratori del 2001 sulla supposta efficacia della paroxetina per la depressione negli adolescenti. Infatti nel 2001 sul Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry era stata pubblicata una ricerca a firma di Martin B. Keller e altri 21 autori[17] che mostrava l’efficacia dell’antidepressivo SSRI paroxetina per il trattamento della depressione negli adolescenti. In realtà nessuno dei 22 autori scrisse questo articolo, che fu redatto invece da Sally K. Laden, una ghostwriter pagata dalla potente multinazionale farmaceutica SmithKline Beecham (SKB) – dal 2000 rinominata GlaxoSmith Kline (GSK) – che aveva finanziato la ricerca. L’impianto dello studio era il seguente: con un RCT, cioè con uno studio randomizzato controllato dal placebo in doppio cieco, dal 1994 al 1998 in dodici centri universitari americani sono stati studiati 275 adolescenti affetti da depressione maggiore da almeno otto settimane; questi 275 adolescenti sono stati suddivisi in tre gruppi ai quali sono stati somministrati per otto settimane, rispettivamente, placebo, 20-40 mg. di paroxetina e 200-300 mg. di imipramina (un antidepressivo triciclico di vecchia generazione, commercializzato come Tofranil). L’obiettivo primario dello studio era quello di esaminare l’efficacia e la sicurezza della paroxetina e della imipramina in adolescenti con depressione maggiore. Le conclusioni sono state che «la paroxetina è generalmente ben tollerata ed efficace per la depressione maggiore negli adolescenti».

Ma, 14 anni dopo, il riesame di questo studio pubblicato sul BMJ da Le Noury e collaboratori dimostra invece, sulla base degli stessi dati, esattamente il contrario, e cioè che «né la paroxetina né la imipramina sono efficaci nella depressione maggiore negli adolescenti, e che vi è un aumento di effetti negativi con entrambi i farmaci». Questi effetti negativi consistono soprattutto nell’aumento di suicidi per la paroxetina e di disturbi cardiaci per l’imipramina. Eppure fu grazie a questo studio che l’FDA approvò la paroxetina, le cui vendite subirono una fortissima impennata, grazie anche a prescrizioni di medici generici e pediatri, col risultato che molti adolescenti subirono effetti negativi e alcuni anche morirono. Negli Stati Uniti la paroxetina divenne l’antidepressivo più venduto, con guadagni di 340 milioni di dollari già alla fine del 2001, e solo nel 2002 furono emesse più di due milioni di ricette per bambini e adolescenti, per i quali l’aumento delle prescrizioni di SSRI continuò a crescere per tutto il decennio seguente (per fortuna in Italia l’abuso di antidepressivi negli adolescenti è minore che negli Stati Uniti).

Quasi sùbito diversi ricercatori e giornalisti individuarono anomalie nello Studio 329, e ne resero conto agli autori, alle università di appartenenza e alla rivista che lo pubblicò, senza mai ottenere risposte; anzi, questo studio continuò a essere presentato come il punto di riferimento per la dimostrazione dell’efficacia e della sicurezza della paroxetina. Nel 2004 la Procura Generale di New York denunciò la casa farmaceutica GSK per frode contro i consumatori per aver contraffatto i dati e diffuso informazioni false. La causa legale si concluse con un accordo secondo cui la GSK dovette pagare una multa di 2,5 milioni di dollari e impegnarsi a pubblicizzare sul suo sito Internet i dati effettivi dello Studio 329. Questo verdetto servì a poco a causa delle diverse interpretazioni che potevano essere date alle parole “dati” e “accesso ai dati”. Alcuni anni dopo, nel 2012, il Dipartimento di Giustizia americano denunciò la GSK per truffa nei confronti di Medicare e Medicaid (le principali agenzie assicuratrici pubbliche che finanziano la Sanità in America), in quanto aveva diffuso affermazioni false o fraudolente; la GSK si dichiarò colpevole e accettò di pagare 3 miliardi di dollari, la multa più alta data a un’azienda farmaceutica nella storia americana.

Queste vicende motivarono vari ricercatori a prendere iniziative per evitare che simili problemi potessero ripetersi, anche perché è ovvio che la questione non riguarda solo una casa farmaceutica ma potenzialmente altre case farmaceutiche e, dato il sistema capitalistico, anche il conflitto tra gli interessi della collettività e quelli di una singola azienda che per ovvie ragioni privilegia il proprio profitto (le eventuali multe inoltre possono essere irrisorie rispetto agli enormi guadagni ottenuti grazie alla falsificazione dei dati). In un articolo del 2013, sempre sul BMJ, Doshi, Dickersin & Healy[18] lanciarono allora il RIAT (Restoring Invisible and Abandoned Trials), un progetto che mira a riesaminare le tante ricerche i cui dati sono stati nascosti o manipolati, e questo riesame dello Studio 329 è uno dei risultati raggiunti.

Nel 2014, finalmente, dopo anni di battaglie nei tribunali, nella stampa e nella comunità scientifica, il gruppo di ostinati ricercatori che ha pubblicato sul BMJ questo riesame dello Studio 329 riuscì ad avere accesso ai dati originali, e non solo ad alcuni dati manipolati dalla GSK, anche se questo avvenne con grandi fatiche. Infatti i dati originali consistevano in 77.000 pagine di resoconti clinici, e per di più visibili solo a distanza tramite video, senza che i file potessero essere stampati o scaricati (la GSK insomma permise formalmente l’indagine per le pressioni dell’opinione pubblica, però cercò di ostacolarla il più possibile). Emerse immediatamente che il numero di suicidi e di tentativi di suicidio era ben più alto di quanto riportato dallo Studio 329, e che vi erano molti effetti collaterali dannosi della paroxetina non riportati. Inoltre entrambi i farmaci non erano assolutamente superiori al placebo per la depressione negli adolescenti trattati.

Per un approfondimento, si raccomanda di vedere gli articoli originali, alcuni dei quali pubblicati integralmente su Internet. Il dibattito su questa vicenda è molto acceso, con tantissimi interventi: ed è tutt’altro che in fase di conclusione, tanti sono i pesanti interessi finanziari che lo condizionano.


[1] Allen Frances, Primo, non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie. Torino: Bollati Boringhieri, 2013.

[2] American Psychiatric Association, DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta edizione (2013). Milano: Raffaello Cortina, 2014. Vedi anche: Paolo Migone, Presentazione del DSM-5. Psicoterapia e Scienze Umane, 2013, 47, 4: 567-600; Allen Frances, La diagnosi in psichiatria. Ripensare il DSM-5 (2013). Prefazione di Franco Del Corno, Vittorio Lingiardi e Paolo Migone. Milano: Raffaello Cortina, 2014.

[3] Allan V. Horwitz & Jerome C. Wakefield, La perdita della tristezza. Come la psichiatria ha trasformato la tristezza in depressione (2007). Premessa di Mario Maj. Roma: L’Asino d’Oro, 2015.

[4] Peter D. Kramer, La pillola della felicità (1993). Milano: Sansoni, 1994.

[5] Irving Kirsch, I farmaci antidepressivi: il crollo di un mito (2009). Milano: Tecniche Nuove, 2012.

[6] S.D. Hollon, R.J. DeRubeis, R.C. Shelton & B. Weiss, The emperor’s new drugs: Effect size and moderation effects. Prevention & Treatment, 2002, 5, art. 28.

[7] Michael Balint, Medico, paziente e malattia (1956). Prefazione di Pier Francesco Galli. Milano: Feltrinelli, 1961 (ristampa: Roma: Fioriti, 2014).

[8] Si vedano ad esempio i seguenti articoli di Paolo Migone: Farmaci antidepressivi nella pratica psichiatrica: efficacia reale (Psicoterapia e Scienze Umane, 2005, 39, 3: 312-322); Evidence-Based Medicine o Evidence-B(i)ased Medicine? Ancora sulla efficacia dei farmaci antidepressivi (Psichiatri Oggi, 2010, 3: 15-17); Problemi della ricerca farmacologica: il caso dello “Studio 329” (Psicoterapia e Scienze Umane, 2015, 49, 4: 589-594).

[9] P. Bracken et al., Una psichiatria al di là dell’attuale paradigma (2012). Psicoterapia e Scienze Umane, 2013, 47, 1: 9-22.

[10] Si vedano, tra gli altri, i numerosi articoli di Giovanni Andrea Fava su questo tema, ad esempio i seguenti: Suscettibilità alle ricadute e cronicità nei disturbi affettivi. Siamo sicuri che i farmaci antidepressivi ed ansiolitici abbiano solo un effetto protettivo? (Rivista Sperimentale di Freniatria, 1995, 119, 2: 203-209); Long-term treatment with antidepressant drugs: The spectacular achievements of propaganda (Psychotherapy and Psychosomatics, 2002, 71, 3: 127-132).

[11] Jonathan Shedler, L’efficacia della terapia psicodinamica. Psicoterapia e Scienze Umane, 2010, 44, 1: 9-34.

[12] F. Leichsenring & C. Steinert, La terapia cognitivo-comportamentale è veramente la più efficace? Psicoterapia e Scienze Umane, 2017, 51, 4: 551-558.

[13] Paolo Migone, Editoriale. Psicoterapia e Scienze Umane, 2017, 51, 4: 525-528.

[14] A.F. Jorm, S.B. Patten, T.S. Brugha & R. Mojtabai, Has increased provision of treatment reduced the prevalence of common mental disorders? Review of the evidence from four countries. World Psychiatry, 2017, 16, 1: 90-99.

[15] M. Angell, L’epidemia di malattie mentali e le illusioni della psichiatria (2011). Psicoterapia e Scienze Umane, 2012, 46, 2: 263-282.

[16] J. Le Noury et al., Restoring Study 329: Efficacy and harms of paroxetine and imipramine in treatment of major depression in adolescence. BMJ, 2015, 351: h4320.

[17] M.B. Keller et al., Efficacy of paroxetine in the treatment of adolescent major depression: A randomized, controlled trial. Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry (JAACAP), 2001, 40, 7: 762-772.

[18] P. Doshi, K. Dickersin & D. Healy, Restoring invisible and abandoned trials: A call for people to publish the findings. BMJ, 2013, 346: f2865.

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