Problemi della ricerca farmacologica: il riesame dello “Studio 329” dimostra che i dati sull’efficacia della paroxetina erano stati falsificati

area scientifica Giù le mani dai bambini Onlus

Paolo Migone – Condirettore di Psicoterapia e Scienze Umane
E-mail <migone@unipr.it>

Una versione di questo articolo è in stampa sul n. 4/2015 della rivista Psicoterapia e Scienze Umane (www.psicoterapiaescienzeumane.it)

Nel numero del 16 settembre 2015 il British Medical Journal (BMJ) pubblica la ricerca di Le Noury et al. (2015) – disponibile full-text su Internet alla pagina www.bmj.com/content/bmj/351/bmj.h4320.full.pdf – che riesamina il famoso “Studio 329” di Keller et al. del 2001 sulla supposta efficacia della paroxetina per la depressione negli adolescenti. Questo articolo è accompagnato da un editoriale di Fiona Godlee (2015), editor-in-chief del BMJ, da un duro intervento di Peter Doshi (2015), associate editor del BMJ, e da altri contributi tra cui un editoriale di Henry & Fitzpatrick (2015) e una ricerca di Ingrid Torjesen (2015) sull’aumento di crimini violenti nei giovani che assumono farmaci antidepressivi SSRI (cioè gli “inibitori selettivi del re-uptake della serotonina”, categoria farmacologica cui appartiene anche la paroxetina e cui fanno parte vari altri farmaci tra cui il citalopram, l’escitalopram, la fluvoxamina, la sertralina e la fluoxetina, quest’ultima molto conosciuta col nome di Prozac e commercializzata anche come Azur, Cloriflox, Diesan, Flotina, Fluoxeren e Xeredien). Data l’importanza di questo studio e la risonanza che ha avuto anche nei media, raccontiamo brevemente la storia di questa vicenda, emblematica del condizionamento delle case farmaceutiche nella ricerca sull’efficacia dei farmaci.

Nel luglio del 2001 sul Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry (JAACAP) fu pubblicata una ricerca a firma di Martin B. Keller e altri 21 autori che mostrava l’efficacia dell’antidepressivo SSRI paroxetina per il trattamento della depressione negli adolescenti (in Italia la paroxetina viene commercializzata come Daparox, Dropaxin, Eutimil, Sereupin e Seroxat). In realtà nessuno dei 22 autori scrisse questo articolo, che fu redatto invece da Sally K. Laden, una ghostwriter pagata dalla potente casa farmaceutica SmithKline Beecham (SKB) – dal 2000 rinominata GlaxoSmithKline (GSK) – che aveva finanziato la ricerca allo scopo di dimostrare l’efficacia di quel farmaco. L’impianto dello studio era il seguente: con un RCT (randomised controlled trial), cioè con uno studio randomizzato controllato dal placebo in doppio cieco (double blind), dal 1994 al 1998 in dodici centri universitari americani sono stati studiati 275 adolescenti affetti da depressione maggiore da almeno otto settimane (comorbilità con altri disturbi psichiatrici o medici e idee suicidarie costituivano criteri di esclusione dallo studio); questi 275 adolescenti sono stati suddivisi in tre gruppi ai quali sono stati somministrai per otto settimane, rispettivamente, placebo, 20-40 mg. di paroxetina, e 200-300 mg. di imipramina (quest’ultimo è un antidepressivo triciclico, di vecchia generazione, commercializzato come Tofranil). L’obiettivo primario dello studio era quello di esaminare l’efficacia e la sicurezza della paroxetina e della imipramina in adolescenti con depressione maggiore. Le conclusioni sono state che «la paroxetina è generalmente ben tollerata ed efficace per la depressione maggiore negli adolescenti».

Ma, 14 anni dopo, il riesame di questo studio pubblicato sul BMJ da Le Noury et al. (2015) dimostra invece, sulla base degli stessi dati, esattamente il contrario, e cioè che «né la paroxetina né la imipramina sono efficaci nella depressione maggiore negli adolescenti, e che vi è un aumento di effetti negativi con entrambi i farmaci». Questi effetti negativi consistono soprattutto nell’aumento di suicidi per la paroxetina e di disturbi cardiaci per l’imipramina. Per effetto di questo studio del 2001 le vendite della paroxetina e di altri SSRI subirono una fortissima impennata, grazie anche a prescrizioni di medici generici e pediatri, col risultato che molti adolescenti subirono effetti negativi e alcuni anche morirono. Negli Stati Uniti la paroxetina divenne l’antidepressivo più venduto, con guadagni di 340 milioni di dollari già alla fine del 2001, e solo nel 2002 furono emesse più di due milioni di ricette per bambini e adolescenti, per i quali l’aumento delle prescrizioni di SSRI continuò a crescere per tutto il decennio seguente.

Quasi sùbito diversi ricercatori e giornalisti individuarono anomalie nello Studio 329, e ne resero conto agli autori, alle università di appartenenza e alla rivista che lo pubblicò, senza mai ottenere risposte; anzi, questo studio continuò a essere presentato come il punto di riferimento per la dimostrazione dell’efficacia e sicurezza della paroxetina. Nel 2004 la Procura Generale di New York denunciò la casa farmaceutica GSK per frode contro i consumatori per aver contraffatto i dati e diffuso informazioni false. La causa legale si concluse con un accordo secondo cui la GSK dovette pagare una multa di 2,5 milioni di dollari e si impegnava a pubblicizzare sul suo sito Internet i dati effettivi dello Studio 329, così come di tutte le altre sue ricerche. Questo verdetto servì a poco a causa delle diverse interpretazioni che potevano essere date alla parola “dati” e “accesso ai dati”. Alcuni anni dopo, nel 2012, il Dipartimento di Giustizia americano denunciò la GSK per truffa nei confronti di Medicare e Medicaid (le principali agenzie assicuratrici pubbliche che finanziano la Sanità in America), in quanto aveva diffuso affermazioni false o fraudolente; la GSK si dichiarò colpevole e accettò di pagare 3 miliardi di dollari, la multa più alta data a una azienda farmaceutica nella storia americana.

Queste vicende motivarono vari ricercatori a prendere iniziative per evitare che simili problemi potessero ripetersi, anche perché è ovvio che la questione non riguarda solo una casa farmaceutica ma potenzialmente altre case farmaceutiche e, dato il sistema capitalistico, anche il conflitto tra gli interessi della collettività e quelli di una singola azienda che per ovvie ragione privilegia il proprio profitto (le eventuali multe inoltre possono essere irrisorie rispetto agli enormi guadagni ottenuti grazie alla falsificazione dei dati).

In un articolo del 13 giugno 2013 sempre sul British Medical Journal – disponibile full-text dal sito www.bmj.com/content/bmj/346/bmj.f2865.full.pdf – Peter Doshi, Kay Dickersin e David Healy lanciarono allora il RIAT (Restoring Invisible and Abandoned Trials), un progetto che mira a riesaminare le tante ricerche mai pubblicate, abbandonate o i cui dati sono stati nascosti o manipolati. Infatti, come è già stato spiegato in un articolo pubblicato nel n. 3/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane (Migone, 2005), dato che tutte le ricerche sui farmaci sono finanziate dalle case farmaceutiche allo scopo di dimostrare l’efficacia di un farmaco che si vuole lanciare sul mercato, una ricerca che rivela risultati negativi ha una probabilità molto inferiore di essere pubblicata (va ricordato a questo proposito che, come Driessen et al. [2015] hanno dimostrato, questo problema esiste anche nelle ricerche in psicoterapia), e ciò produce un enorme fattore di distorsione: nel contratto che viene stipulato tra la casa farmaceutica che elargisce i fondi e l’università che sperimenta il farmaco spesso viene anche esplicitato che la pubblicazione può avvenire solo se la casa farmaceutica lo consente (a questo stato di cose si è cercato di far fronte solo una decina di anni fa con la regola adottata da molte riviste – ma non tutte – di impegnarsi a non pubblicare una ricerca se essa, prima del suo inizio, non viene registrata in una banca dati internazionale [https://clinicaltrials.gov], allo scopo di impedire che la ricerca possa poi essere nascosta se i risultati non sono graditi a chi la commissiona). In questo articolo di Doshi, Dickersin & Healy (2013) sul BMJ – Doshi (2015) è autore del duro intervento, prima citato, dal titolo “Nessuna correzione, nessuna ritrazione, nessuna scusa, nessun commento: il riesame della ricerca sulla paroxetina solleva domande sulla responsabilità delle istituzioni” – viene appunto lanciato il progetto RIAT, di cui questo riesame dello Studio 329 sulla paroxetina è uno dei risultati raggiunti (non sono tanti gli studi riesaminati, ad esempio Ebrahim et al. [2014] sono riusciti a reperire unicamente 37 riesami, solo 5 dei quali condotti da ricercatori non connessi alle ricerche esaminate, quindi non biased, e un terzo ha rivelato risultati diversi da quelli originari).

Nel 2014, finalmente, dopo anni di battaglie nei tribunali, nella stampa e nella comunità scientifica, il gruppo di ostinati ricercatori che ora pubblica sul BMJ questo riesame dello Studio 329 riuscì ad avere accesso ai dati originali, e non solo ad alcuni dati manipolati dalla GSK, anche se questo avvenne con grandi fatiche. Infatti, come ricordano Jureidini & Nardo (2014), i dati originali consistevano in 77.000 pagine di resoconti clinici, e per di più visibili solo a distanza tramite video, senza che i file potessero essere stampati o scaricati (la GSK insomma permise formalmente l’indagine per le pressioni dell’opinione pubblica, però cercò di ostacolarla il più possibile). Emerse immediatamente che il numero di suicidi e di tentativi di suicidio era ben più alto di quanto riportato dallo Studio 329, e che vi erano molti effetti collaterali dannosi della paroxetina non riportati. Inoltre entrambi i farmaci non erano assolutamente superiori al placebo per la depressione negli adolescenti trattati.

Per un approfondimento, si raccomanda di vedere gli articoli originali, alcuni dei quali pubblicati integralmente su Internet, e soprattutto il sito web http://study329.org che è appositamente dedicato al riesame della Studio 329 con documenti, interviste, video, ecc. Il dibattito su questa vicenda e sul problema dei pesanti condizionamenti delle case farmaceutiche nella ricerca scientifica è molto acceso, con tantissimi interventi. Tra quelli avvenuti negli ultimi anni solo sul BMJ, si vedano, tra gli altri, gli articoli di Smith, 1997; Melander et al., 2003; Hrynaszkiewicz et al., 2010; Newman, 2010; Schulz et al., 2010; Hendrick, 2011; Doshi, Jones & Jefferson, 2012; Prayle, Hurley & Smyth, 2012; Chan et al., 2013; Godlee, 2013a, 2013b; Hawkes, 2013; Loder, 2013; Loder et al., 2013; Rubiales, 2013; Smith, Gøtzsche & Groves, 2014; Taylor et al., 2014; Tucker, 2013 (per la questione della poca efficacia degli antidepressivi, vi veda anche Fava, 1994, 2003; Kirsch et al., 2002; Kirsch, 2009; Migone, 2005, 2009, 2010a, 2010b, 2013a, 2013b, 2014a, 2014b; Portuges, 2003; Whittington, 2004; Rising, Bacchetti & Bero, 2008; Turner et al., 2008; Hopewell et al., 2009; Pigott et al., 2010; Whitaker, 2010; Angell, 2011; ecc.).

Il settimanale British Medical Journal (BMJ) è una delle più importanti riviste mediche del mondo. È stato fondato nel 1840, con sede principale a Londra e sedi negli stati Uniti e in India; tutti gli articoli sono pubblicati on-line (alcuni open access), mentre una parte di essi anche nella versione cartacea. Sul sito Internet vi sono anche podcast, video e blog. Vengono stampate circa 122.000 copie cartacee alla settimana (di cui circa 10.000 vendute fuori dall’Inghilterra), e le visite al sito Internet sono circa 1.400.000 al mese, mentre le varie edizioni internazionali raggiungono altri 55.000 lettori. L’Impact Factor del 2015 è 17.445. L’editore è il BMJ Publishing Group Ltd, posseduto dalla British Medical Association. Riceve finanziamenti da varie fonti (abbonamenti, pubblicità, ecc.), ma chi si occupa dei finanziamenti fa parte di un team separato da quello di chi si occupa della redazione.

Come ricorda Alberto Spagnoli, che ha segnalato il British Medical Journal nel n. 2/2012 di Psicoterapia e Scienze Umane (a cui si rimanda per cenni sulla storia di questa importante rivista), il BMJ è spesso ricordato per aver pubblicato, il 30 ottobre 1948, il primo studio randomizzato controllato nella storia della medicina: «La ricerca era stata coordinata dal Medical Research Council e valutava l’efficacia della streptomicina nella tubercolosi polmonare (…). Negli anni 1950, il BMJ pubblicherà alcuni articoli decisivi sugli effetti nocivi del fumo di sigaretta, frutto degli studi coordinati da Sir Richard Doll (1912-2005), fondatore dell’epidemiologia moderna. Con queste pubblicazioni già si delineava la policy che il BMJ perseguirà dalla metà del Novecento fino a oggi: centralità della Public Health, importanza dell’epidemiologia per la spiegazione e la prevenzione delle malattie, e sullo sfondo l’idea di community» (Spagnoli, 2012, p. 313).

Riassunto. Il 16 settembre 2015 il British Medical Journal (BMJ) ha pubblicato un riesame, a cura di Le Noury et al., del controverso “Studio 329”, lo studio controllato randomizzato (RCT) di Keller et al. del 2001 sugli effetti della paroxetina e dell’imipramina per la depressione negli adolescenti, che aveva concluso che la paroxetina era efficace e ben tollerata. Invece il riesame ora pubblicato sul BMJ, sulla base degli stessi dati, dimostra esattamente il contrario, e cioè che «né la paroxetina né la imipramina sono efficaci nella depressione maggiore negli adolescenti, e che vi è un aumento di effetti negativi con entrambi i farmaci», quali aumento di suicidi per la paroxetina e disturbi cardiaci per l’imipramina. La casa farmaceutica GlaxoSmithKline (GSK), che aveva finanziato lo “Studio 329” e falsificato i dati, era infatti stata denunciata per frode e dovette pagare una multa di 3 miliardi di dollari.


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