Autore: Luigi Morticelli – fonte: Menteallegra Blogspot

U.C.O. di Cllnica Psichiatrica , Dipartimento di Scienze Cllniche, Morfologiche e Tecnologiche Università degli Studi di Trieste

Riportiamo quasi per intero un articolo di un gruppo di ricercatori : M De Vanna, C. Alagni, R. Marin, D. Carlino dell’Universita’ degli studi di Firenze.Alcune riflessioni su tali titpi di studi verranno fatte nella continuazione dell’articolo. L’articolo e’ tratto da “L’altro” rivista quadrimestrale della SIFIT.
 

Introduzione

II termine ha fatto la sua comparsa alla fine degli anni ’80 del secolo scorso in un articolo del neurologo R. Cranford del 1989, benché tenda ad assumersene la paternità il commentatore del New York Times William Safire, scrittore che si occupa da tempo di politica e linguistica e chairman della Dana Foundation. Secondo Safire la neuroetica è un «ambito della filosofia, che discute del trattamento e del potenziamento del cervello umano».

Più tardi il neuroscienziato Michael Gazzaniga ha esteso la definizione, facendo rientrare nella neuroetica la riflessione sulla gestione di «alcune tematiche sociali -quali la malattia, la mortalità, la normalità, lo stile di vita e la filosofia della vita», nel tentativo addirittura di uniformare i nostri intendimenti ai meccanismi del cervello che li sottendono.

La neuroetica ……disciplina che cerca il massimo dei benefici da eventuali cure mediche del cervello…ma anche….sforzo di elaborare una filosofia della vita, basata sul cervello»……..È possibile pensare che il senso etico – che ognuno di noi si forma attraverso l’educazione, l’ambiente sociale, le pratiche religiose, la formazione spirituale – riesca a far buon uso delle nuove conoscenze scientifiche? C’è una comunità politica e morale in grado di proteggere dai rischi della ricerca? Oggi sappiamo che alcune disfunzioni cerebrali hanno una certa probabilità di essere associate a comportamenti antisociali. Ma se domani gli strumenti di imaging cerebrale ci permettessero di identificare dei marcatori neurofisiologici per determinati profili comportamentali, per esempio stupri e omicidi, cosa succederebbe nelle aule di tribunale?
……Nell’ambito di ciò che siamo in grado di fare, i fronti più caldi riguardano il neuroimaging predittivo, e le relative applicazioni giudizi-arie e l’enhancement……La nascita di quella che potremmo chiamare la moderna “neurologia forense” risale alle osservazioni compiute nel XIX secolo da John Harlow sul caso di Phineas P. Cage. Gage, un operaio delle ferrovie, ebbe la sfortuna di avere la parte anteriore del cervello trapassata violentemente da una sbarra di ferro, che gli procurò vasti danni alla corteccia prefrontale. Nonostante un miracoloso recupero delle facoltà fisiche e intellettuali, vennero osservati grandi cambiamenti nella sua personalità. L’uomo che era stato una volta cortese e diligente divenne decisamente antisociale. Facendo seguito all’impressionante descrizione computa da Harlow, ricostruzioni computerizzate basate sulle fratture craniche di Gage hanno individuato più precisamente le regioni danneggiate della corteccia prefrontale, che le prove oggi disponibili associano al controllo delle funzioni involontarie, delle abilità sociali e dell’affettività. Il caso di Phineas Gage è fondamentale sia per i neuroscienziati sia per gli studiosi di diritto, perché ha indicato per la prima volta che le facoltà raziocinative e il rispetto per gli altri possono essere compromessi da un danno al lobo frontale. Le osservazioni di Harlow hanno condotto molti esperti a ipotizzare che un insulto neurologico potrebbe costituire un fattore importante nel comportamento criminale recidivo e violento. Le ricerche empiriche moderne confermano l’affermazione che la corteccia prefrontale umana, uno degli ultimi arrivati nella filogenesi del cervello, è ciò che conferisce le facoltà razionali, intellettuali e morali
(tab.l):che alcuni tipi di comportamento criminale sono associati a disfunzioni di regioni differenti del cervello (8). Tuttavia, più che la fRMI, sono le risposte, elettroence-falografiche dei sospetti a essere state utilizzate con qualche risultato nel tentativo di discriminare gli stimoli generalmente connessi al crimine da quelli noti solo al suo esecutore. Il metodo “Brain Fingerprinting”, per esempio, riguarda una particolare applicazione dei potenziali evento-relati basata sull’assunto che gli stimoli presentati, derivati dal contesto del crimine, producano risposte elettriche (P300) diverse a seconda che il soggetto riconosca o meno la rilevanza dell’informazione in essi contenuta e ne apprezzi o meno i dettagli, sconosciuti alla persona innocente. Negli USA, questo tipo di esame è stato ammesso nell’ambito processuale e ne è stato proposto l’uso allo scopo di identificare potenziali terroristi; in Italia, invece, i risultati di questo tipo di esame non hanno valore probatorio. La neuroetica sta discutendo anche dei bias sociali: alcuni esempi emblematici riguardano il neuromarketing, i bias razziali ed il brain fingerprinting. Il neuromarketing si serve della fRMI per misurare l’influenza dei vari prodotti sul sistema limbico dei consumatori. In uno studio recente (9) si è visto che l’attivazione cerebrale associata alla preferenza per la bibita coincideva con quella per il suo nome, ma la Coca Cola produceva un’attivazione maggiore della Pepsi. Poiché queste strutture cerebrali sono coinvolte nell’elaborazione di emozioni, la loro sensibilità all’esposizione a certi prodotti significa che i gusti del consumatore sono orientabili. Una logica analoga è stata applicata anche all’identificazione dei correlati cerebrali delle preferenze politiche degli elettori indecisi, ricevendo condivisibili critiche.
Corteccia cingolate anteriore  : Empatia

CPF orbitale  :Rimorso
CPF ventromediale : Decisioni morali
CPF ventrolaterale : Inibizione del comportamento
CPF dorsolaterale : Ragionamento

Per esempio, numerosi studi su pazienti con ferite localizzate nel lobo frontale hanno avvalorato la tesi di Harlow. In uno degli studi più ampi finora eseguiti su pazienti con danno cerebrale, Moli J et al. hanno scoperto che punteggi crescenti su una scala di aggressività/violenza erano associati più strettamente a lesioni della corteccia prefrontale localizzate in modo simile in un campione di 279 veterani della guerra del Vietnam. Punteggi più alti, tuttavia, erano associati più strettamente ad aggressioni verbali che ad aggressioni fisiche, in accordo anche qui con le osservazioni di Harlow su Gage. Questi studi, insieme alle osservazioni cliniche, hanno indotto molti a suggerire che un danno alla corteccia prefrontale dia origine a una “sociopatia acquisita”, o “pseudopsicopatia”.Un tipico esempio si ha nel caso del quindicenne Kip Kinkel, che nel 1998 uccise a colpi di arma da fuoco i propri genitori e due suoi compagni di liceo nello stato dell’Oregon. L’imaging cerebrale venne impiegato come prova in aula per sostenere la tesi della difesa di Kinkel della “non colpevolezza per infermità mentale”. Fu documentato l’esistenza di piccole cavità nel lobo frontale del giovane. Benché non ci fosse nessuna prova che questa anomalia avesse causato il comportamento di Kinkel (che alla fine venne giudicato come adulto e condannato ad anni di prigione), sviluppi futuri delle neuroscienze potrebbero di nuovo aiutare i tribunali in questo tipo di indagini.

Vanno inoltre considerate recenti acquisizioni che suggeriscono come la corteccia prefrontale continui a maturare fino all’età di 25 anni, e che questa correlazione sia correlata all’abilità nel ragionamento controfattuale (se-allora). Una corteccia prefrontale ventrolaterale poco sviluppata può essere associata direttamente a un controllo cognitivo insufficiente, che alcuni considerano una variabile fondamentale nel comportamento criminale. Questa teoria richiede probabilmente seria attenzione, data la robusta relazione esistente tra l’età e i crimini violenti. Per esempio, le statistiche della British Crime Survey mostrano che gli individui compresi tra 16 e 24 anni commettono più atti violenti di tutti gli altri gruppi di età presi assieme.
Raine et al. (2006) (5) hanno impiegato tecniche non invasive di imaging strutturale del cervello per evidenziare una riduzione dell’I 1% nella materia grigia della corteccia prefrontale in pazienti con disturbo di personalità antisociale. Riduzioni analoghe sono state osservate in uno studio di pazienti aggressivi e di bugiardi patologici. Ciononostante, queste anomalie morfologi-che e volumetriche non sono necessariamente collegate al comportamento.

La corteccia prefrontale non è, comunque, l’unica area in cui un danno può incrementare la propensione a comportamenti ritenuti criminali o antisociali. L’amigdala è stata uno degli obiettivi principali dei tentativi di spiegare i bassi livelli di empatia e di reazione alla paura osservati nei criminali psicopatici. Usando la risonanza magnetica funzionale, Birbaumer et al. (2005) hanno sottoposto alcuni soggetti a uno schema sperimentale nel quale l’apparizione di un viso su uno schermo era seguita da una scarica dolorosa in certi casi, ma non in altri. L’analisi dei risultati ha dimostrato come i volontari normali esibissero un’accresciuta attività nell’amigdala in risposta ai visi associati con la scarica, mentre gli individui psicopatici non mostravano alcun cambiamento significativo nell’attività di questa regione. Inoltre gli psicopatici non mostravano neppure i normali incrementi nelle reazioni misurate a livello di conduttanza della pelle. È importante notare che le scoperte del gruppo di Birbaumer sono state corroborate da studi che mostrano come le strutture limbiche (cioè l’amigdala e l’ippocampo) risultino funzionalmente anormali nei criminali psicopatici durante l’esercizio della memoria emozionale, e da studi che mostrano come l’attività dell’amigdala diminuisca al crescere dei punteggi ottenuti nello Psychopathy Personality Inventory. L’ipotesi ritenuta più probabile è che nei criminali psicopatici le connessioni nell’amigdala prefrontale siano alterate, causando un deficit nel condizionamento contestuale alla paura, nel rimorso, nel sentimento di colpa e nella regolazione dell’affettività.
È chiaro, almeno in alcuni contesti, che comportamenti violenti antisociali diversi possono avere cause diverse. Studi condotti sugli animali hanno mostrato che reti distinte sono alla base di tipi differenti di aggressione (come l’attacco di un predatore e la violenza a scopo di difesa) questi studi lascerebbero supporre che negli esseri umani esistano topografie neurali differenti nei crimini sessuali, nei sadici omicidi e nei terroristi politici. A prima vista, questo ragionamento suona come una follia frenologica; tuttavia, esistono prove che suggeriscono in effetti come il comportamento violento possa essere posto in due ampie ma distinte categorie: l’aggressione affettiva (cioè impulsiva, involontaria, e legata alle emozioni) e l’aggressione predatoria (cioè premeditata, diretta a un obiettivo, e priva di contenuto emotivo. Con questa dicotomia in mente, Raine et al. (2006) (5) hanno rianalizzato dati ottenuti con la tomografia ad emissione di positroni, per evidenziare differenze funzionali tra psicopatici autori di delitti premeditati e assassini affettivi che avevano agito d’impulso. Paragonati al gruppo di controllo, gli assassini impulsivi mostravano una ridotta attivazione della corteccia prefrontale bilaterale, mentre l’attività nelle strutture limbiche era incrementata. Al contrario, gli psicopatici predatori mostravano un funzionamento prefrontale relativamente normale, ma un’accresciuta attività nell’area subcorticale di destra, che comprendeva l’amigdala e l’ippocampo. Questi risultati suggeriscono che gli psicopatici predatori sono capaci di controllare i propri impulsi, al contrario degli assassini impulsivi, a cui mancano i meccanismi prefrontali inibitori che potrebbero impedire loro di commettere crimini violenti. Benché altro lavoro sia necessario, questi studi suggeriscono con forza che alcuni tipi di comportamento criminale sono associati a disfunzioni di regioni differenti del cervello.Tuttavia, più che la fRMI, sono le risposte, elettroencefalografiche dei sospetti a essere state utilizzate con qualche risultato nel tentativo di discriminare gli stimoli generalmente connessi al crimine da quelli noti solo al suo esecutore. Il metodo “Brain Fingerprinting”, per esempio, riguarda una particolare applicazione dei potenziali evento-relati basata sull’assunto che gli stimoli presentati, derivati dal contesto del crimine, producano risposte elettriche (P300) diverse a seconda che il soggetto riconosca o meno la rilevanza dell’informazione in essi contenuta e ne apprezzi o meno i dettagli, sconosciuti alla persona innocente. Negli USA, questo tipo di esame è stato ammesso nell’ambito processuale e ne è stato proposto l’uso allo scopo di identificare potenziali terroristi; in Italia, invece, i risultati di questo tipo di esame non hanno valore probatorio. La neuroetica sta discutendo anche dei bias sociali: alcuni esempi emblematici riguardano il neuromarketing, i bias razziali ed il brain fingerprinting. Il neuromarketing si serve della fRMI per misurare l’influenza dei vari prodotti sul sistema limbico dei consumatori. In uno studio recente si è visto che l’attivazione cerebrale associata alla preferenza per la bibita coincideva con quella per il suo nome, ma la Coca Cola produceva un’attivazione maggiore della Pepsi. Poiché queste strutture cerebrali sono coinvolte nell’elaborazione di emozioni, la loro sensibilità all’esposizione a certi prodotti significa che i gusti del consumatore sono orientabili. Una logica analoga è stata applicata anche all’identificazione dei correlati cerebrali delle preferenze politiche degli elettori indecisi, ricevendo condivisibili critiche.
Per quanto riguarda il secondo punto, la ricerca psicologica ha mostrato che, in generale, siamo più veloci e accurati nel riconoscere facce che appartengono al nostro gruppo rispetto a quelle di un gruppo diverso. L’effetto, noto come same-race advantage, sarebbe dovuto al fatto che vediamo più spesso facce del nostro gruppo e ne abbiamo una maggiore esperienza. E soggetti americani bianchi che avevano dimostrato di avere un bias negativo maggiore a prove indirette (riflesso di trasalimento e Implicit Association Test), mostravano anche un’attivazione dell’amigdala maggiore quando osservano facce di persone di colore. Nell’insieme, le neuroimmagini sembrano aver raggiunto poco o nulla alla nostra comprensione dei bias razziali rispetto a ciò che sapevamo già sulla scorta degli studi comportamentali. Non è invece chiaro se questi risultati possono essere generalizzati dai bianchi americani ad altri gruppi o estesi ad altri stimoli o quale sia il ruolo esatto dell’amigdala.
Altre serie preoccupazioni nascono dalle macchine della verità basate sullo scanning cerebrale. Larry Farwell, dei Brain Fingerprinting Laboratories, lavora a contratto con investigatori pubblici e privati per condurre questo tipo di test, che vengono chiamati MERA (Multifaceted Electroencephalographic Response Analysis) . A sentire Farwell, il test è in grado di stabilire se un sospetto abbia familiarità con la scena di un crimine, con una faccia, con un pezzo di mobilio o di abbigliamento, tutte informazioni che servono ad identificare l’effettivo colpevole .
Al sospetto di turno viene fatto indossare un piccolo copricapo pieno di sensori tipo EEG (electroencephalogram) e vengono fatte vedere alcune immagini sullo schermo in modo da monitorare le variazioni della sua attività neuronaie in corrispondenza con immagini a lui familiari. Il metodo è stato usato con successo per scagionare Terry Harrington, presunto colpevole di omicidio. Secondo i neuroetici, però, tale metodo potrebbe anche essere usato facilmente per pilotare determinati verdetti.
È il paradosso caratteristico della società del controllo: chi controlla i controllori ? I neuroetici sono preoccupati anche dalle possibili discriminazioni a cui potrebbe condurre l’uso di queste tecnologie. Ad esempio, nella ricerca del personale, che verrebbe sottoposto a test atti-tudinali super-invasivi, o anche nella selezione degli studenti alle università e alle scuole specializzate. Al momento, non è stata varata ancora nessuna legge specifica. Esistono due leggi federali, l’American With Disabilities Act e l’Health Insurance Portability and Ac-countability Act, che dovrebbero salvaguardare la privacy delle informazioni mediche. Il rischio che queste tecnologie vadano ad alimentare database segreti con le preferenze politiche, culturali, sessuali e i dati medici della popolazione, per essere poi vendute ai migliori offerenti, c’è, inutile nasconderlo. E crescerà insieme agli avanzamenti tecnologici dell’emergente industria neuro-informatica.Neuroenhancement
II termine inglese “enhancement” trova la sua traduzione letterale come “miglioramento” ed è insito nell’essere umano la tendenza a migliorarsi utilizzando strumenti di diverso tipo. Oggi nella società contemporanea il miglioramento viene ottenuto attraverso l’uso della tecnologia e le sostanze chimiche. Con il termine neuroenhancement si intende la possibilità di migliorare il cervello, dunque le nostre prestazioni. Già 15 anni fa, si era acceso il dibattito attorno all’uso sempre maggiore del Prozac, che dava la possibilità a chiunque di aumentare il tono dell’umore anche in chi non era affetto da depressione. Oggi, nel 2008 Nora Volkow ha pubblicato un articolo dal titolo: “The action of enhancers can lead to addic-tion” affermando che l’uso di sostanze in grado di migliorare le prestazioni può condurre alla dipendenza. In questo articolo vengo presi in considerazione quattro milioni di persone che vengono quotidianamente trattati con stimolanti.L’uso di queste sostanze sotto prestazione medica è legittimo, ma la facile reperibilità di questi farmaci, aumenta il rischio di un loro utilizzo scorretto. Basti considerare il fatto che negli USA, le prescrizioni per stimolanti (in particolar modo di metil-fenidato (Ritalin) – dopaminergico che aumenta le performance cognitive -) nelle scuole medie superiori appare secondario solamente all’uso di cannabis. (15-16). Il metilfenidato costituisce un farmaco la cui indicazione terapeutica è la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) nei bambini. È un farmaco stimolante del sistema nervoso centrale ha effetto calmante e riduce il comportamento impulsivo dei bambini; i suoi effetti collaterali sono inferiori a quelli delle altre anfe-tamine analoghe. Nonostante l’indubbia efficacia del farmaco spesso il suo uso non appare lecitamente giustificato, soprattutto negli Stati Uniti è stato evidenziato un incremento esponenziale delle prescrizioni di metilfenidato (Ritalin) da parte dei pediatri. Già nel 1999 l’incidenza della ADHD negli USA era stimata al 4% mentre la prescrizione di Ritalin era intorno al 1,5%; suddividendo però la popolazione infantile affetta da ADHD si evidenziava come in alcune zone degli Stati Uniti il metilfenidato venisse somministrato al 10-12% dei bambini compresi tra i 6 ed i 12 anni (17). Da diversi studi si evince come il 12,5% dei bambini ai quali è stata fatta diagnosi di ADHD, secondo i criteri del DSM-III, sono in terapia con metilfenidato (18). Sulla sovraprescrizione di questo farmaco si è espresso nel 2005 l’ONU che ha fatto appello a diverse nazioni affinchè la diagnosi di ADHD non sia sovrastimata e l’uso di metilfenidato non raggiunga livelli allarmanti. A conferma di quanto detto esiste uno studio di Brighi G.M., et al. (2008) (19) che prende in considerazione 545 soggetti trattati per ADHD evidenziando le percentuali di uso improprio dei f armaci somministrati. Dai risultati riportati si osserva come dei 545 pazienti (di cui 89,2% trattati per ADHD) il 14,3% faccia abuso degli stimolanti somministratigli. Le sostanze di cui più frequentemente si è riscontrato un eccessivo utilizzo sono un insieme di diverse anfetamine (40% Adderai) a seguire anfetamine a lento rilascio (14,2% Adderai XR) e metilfenidato (15% Ritalin), inoltre, la frantumazione delle compresse con successiva aspirazione, appare la più comune via di assunzione, riscontrata ben nel 75% dei casi. Da recenti ricerche si è evidenziato come altri farmaci risultino spesso utilizzati con scopi illecitamente diversi da quelli per i quali vengono comunemente prescritti. È questo il caso del Donepezil, inibitore dell’acetilcolinesterasi ed usato nel trattamento dell’ Alzheimer, viene assunto invece dai piloti delle linee aeree commerciali poiché si è osservato migliori le prestazioni nelle simulazioni di volo.Mentre l’uso di un bloccante dei recettori (3-adrenergici (Propanololo) potrebbe secondo recenti studi eliminare i ricordi spiacevoli legati a stress post-traumatici. A tale proposito è Pitman et al. (2002) (21) ad affettuare uno studio a doppio-cieco su soggetti con acuto PTSD somministrando a 18 persone propanololo e a 23 placebo a sei ore dall’evento e prolungando la somministrazione per 10 giorni. Allo scadere di questa data egli afferma che nei soggetti trattati con propanololo le conseguenze negative legate al trauma sono significativamente inferiori rispetto ai soggetti a cui è stato somministrato solo placebo. Successivamente Brunet et al. (2008) hanno effettuato uno studio a doppio-cieco simile al precedente ma su soggetti affetti da disturbo post-traumatico da stress cronico. Anche in questo caso tra tutti i pazienti (di cui 9 trattati con propanololo e 10 con placebo) si è osservato come coloro che ricevevano il farmaco avevano risposte fisiologicamente inferiori ai ricordi traumatici rispetto agli altri. Dati statistici evidenziano come il Provigil (Modafinil farmaco utilizzato nella terapia della narcolessia, poiché riduce la sonnolenza diurna provocata da tale malattia) venga impropriamente utilizzato nel 90% dei casi per migliorare prestazioni sportive (nonostante non sia stato provato un suo effetto certo dopante) e per ridurre la sonnolenza dovuta al jet-lag . Esiste inoltre un acceso dibattito su come tale farmaco venga impropriamente usato da soggetti sani come potenziatore cognitivo, i ricercatori appaiono concordi nell’ affermare che il moda-finil potenzi effettivamente alcuni aspetti della memoria, ma vi sono dubbi sulla sua efficacia nella memoria spaziale e nelle funzioni esecutive e nell’attenzione .
 

Le basi neurobiologiche dell’empatia

Si pensi ad esempio alla questione dei mirror neurons emersa negli anni ’80 e ’90 con il gruppo di ricercatori dell’Università di Parma coordinato da Giacomo Rizzo-latti, e conscguentemente dell’empatia. I neuroni specchio sono una classe di neuroni specifici che si attivano sia quando si compie un’azione sia quando la si osserva mentre è compiuta da altri (in particolare tra conspecifici). I neuroni dell’osservatore “rispecchiano” quindi il comportamento dell’osservato, come se stesse compiendo l’azione egli stesso. Nell’uomo, oltre ad essere localizzati in aree motorie e premotorie, si trovano anche nell’area di Broca e nella corteccia parietale inferiore.Un esperimento di Tania Singer (University of Zurich) ha suscitato un notevole dibattito ed è stato replicato con modalità e risultati differenti con la TMS invece della fRMI. Esso presenta alcuni motivi di interesse :

• studia regioni diverse da quelle dei neuroni specchio (corteccia insulare anteriore e frontale, corteccia cingolata anteriore)
• i soggetti dell’esperimento sono coppie con un legame affettivo (la donna è sottoposta a fMRI)
• non assegna alcun ruolo all’espressione del volto. I risultati mostrano che la risposta empatica non comporta l’attivazione dell’intera pain matrix, bensì solo delle componenti associate con la dimensione affettiva//dell’esperienza del dolore (sgradevolezza soggettiva e ansia rispetto all’anticipazione del dolore), escludendo quelle che danno informazioni sensorie sull’intensità, sulla localizzazione e sulla qualità dello stimolo doloroso.Lo studio dimostra inoltre una relazione tra l’attività del cervello collegata all’empatia e la differenza individuale nelFempatizzare, valutata mediante questionari sulla base di una scala stabilita.
Risulta inoltre che la risposta empatica si innesca automaticamente anche senza contorno emotivo (espressioni del volto), sostituito dalla presentazione di un indicatore fittizio che segnala lo stato emotivo dell’altra persona. Le aree responsabili dell’empatia del dolore, in conformità con questi dati sperimentali, sarebbero quelle dell’esperienza soggettiva affettiva (anticipazione, ansia).

Tania Singer fa riferimento alla tesi che il dolore sia un’emozione strettamente legata all’omeostasi, ossia rifletta lo stato interno del corpo, la sua condizione fisiologica (temperatura, eccitazione sessuale, fame, ecc.). tale sentirsi corporeo è mappato in alcune aree del cervello (insula posteriore, corteccia sensorimotoria). Nell’empatia del dolore interverrebbero quindi rirappresentazioni corticali dell’introcezione, ossia della rappresentazione dello stato fisiologico interno corporeo. Esse fungono da base neuronaie per la capacità di comprendere l’importanza emotiva di un particolare stimolo per un’altra persona e anticiparne le conseguenze . Sentire/capire che l’altro prova dolore non richiede dunque una riproduzione sulla propria pelle dell’intensità, della localizzazione e della qualità dello stimolo nocivo, bensì la rappresentazione della rilevanza soggettiva dello stimolo così come si riflette nella spiacevolezza avvertita dall’altro.In sostanza, la nostra capacità di empatizzare dipende dal sistema del “sentirsi corporeo” (omeostasi e rappresentazione degli stati interni corporei) e dallo sviluppo del sé come entità affettiva.La costruzione complessa degli esperimenti sul dolore e i diversi modelli di riferimento implicano che minime variazioni possono portare a risultati differenti. Ne consegue che l’evidenza neurobiologica della quale si dice potrebbe fornire la “base” dell’empatia, può essere considerata una componente (non l’unica) di una capacità di base consistente nel rispondersi dei corpi a partire da una comune appartenenza a un sistema di reciprocità e reversibilità tra il sé e il mondo (la mano che tocca ed è toccata, il dolore ed altre sensazioni somati-che) (29).
 

Conclusioni

Lo studio del cervello rende ormai evidente che nell’attività di ponderazione delle scelte, di previsione del futuro, di discernimento e valutazione delle opportunità di agire, fondamentale è il ruolo delle emozioni rispetto alle funzioni cognitive. Tutta la nostra vita è intessuta di valutazioni emotivamente connotate che non riguardano solo ciò che è utile o dannoso per la sopravvivenza, ma anche valori socialmente considerati buoni o cattivi e suscettibili quindi di violazioni (30-31). D’altra parte, la molteplice gamma di possibilità inscritte nel cervello umano e la sua plasticità rendono impossibile, almeno allo stato attuale delle conoscenze, ricondurre anche solo un unico comportamento morale esclusivamente a funzionamenti organici. I dati forniti dagli esperimenti condotti con tecniche di neuroimaging che vertono su atteggiamenti sociali o di valore (aggressività, altruismo, utilitarismo, amore romantico, ecc.) hanno carattere correlativo, indiretto ed eminentemente descrittivo, non esplicativo del funzionamento cerebrale . Gli esempi citati in questo articolo infatti, mettono in luce una scorretta interpretazione dei dati di neuroimaging possa prestarsi a fraintendimenti; le principali critiche comprendono :
• II segnale BOLO è solo una misura indiretta dell’attività neurale ed è quindi suscettibile di influenza da parte di fenomeni fisiologici non neurali.

• Aree differenti del cervello potrebbero avere diverse risposte emodinamiche, che non sarebbero rappresentate accuratamente dal modello generale lineare, spesso usato per filtrare i segnali temporali della RMF.

• La fRMI è stata spesso usata per individuare dove avvengano le attivazioni neurali nel cervello e ciò ha portato al nascere di critiche che la accusano di essere quasi una nuova forma di frenologia.

• La fRMI è spesso usata per visualizzare l’attivazione localizzata in regioni specifiche, senza rappresentare adeguatamente la natura distribuita del funzionamento delle reti neurali biologiche, (analisi statistica multi-variata vs univariata).

• Nonostante sia una tecnica non invasiva, la fRMI fornisce una risoluzione spaziale abbastanza buona. Tuttavia, la risposta temporale relativa all’afflusso sanguigno, su cui si basa la fRMI, è piuttosto inadeguata a rappresentare i segnali elettrici veicolo delle comunicazioni neuronali. Alcuni gruppi di ricerca stanno quindi lavorando su questo problema, combinando la fRMI con dati forniti da altri tipi di esami, come l’elettroencefalografia (EEG) o magnetoencefalogra-fia (MEG).
• La scelta delle condizioni basali (background brain ac-tivity) e la soglia statistica che determina il rigore del test sono entrambe materia di giudizio individuale e possono avere una influenza diretta sull’esito e l’in-terpretazione dell’esperimento.
• Inoltre, come in tutte le analisi statistiche di regressione, anche se un’area cerebrale modifica il suo pattern di attivazione, l’evidenza di correlazione tra le variabili (l’area del cervello e la risposta emozionale) non implica necessariamente un rapporto causale tra le variabili. Come conseguenza emergono due ulteriori caveats:
• L'”attivazione” di un’area cerebrale rivela poco circa lo stato fisiologico attuale delle cellule cerebrali.
• fMRI non è in grado di distinguere tra funzioni eccitatorie e inibitorie del cervello, poiché entrambe determinano un aumento del flusso ematico. Quando ci si riferisce all’approccio neurobiologico alle questioni morali, è giusto chiarire che le neuroscienze possono essere utilmente interrogate in relazione ad una ambito determinato e sicuramente non esaustivo della complessità dell’esperienza morale, quello delle precondizioni o condizioni di possibilità della capacità morale.
 
Si può dunque affermare che la neurotica è interessata alla morale prima della morale, ossia all’ambito di una sensibilità morale che inizia a manifestarsi nella vita organica, risponde a esigenze specifiche dell’organismo nel rapporto con l’ambiente, ma non assumerebbe il suo significato propriamente umano se non la guardassimo alla luce della ricchezza complessiva della vita morale quale la sperimentiamo o vanamente la inseguiamo giorno per giorno .Il tracciato neurale di un artista non ci spiega cosa sia un’opera d’arte.I neuroni specchio ci permettono di capire meglio l’efficacia di una rappresentazione o l’attrazione che proviamo per una narrazione coinvolgente, ma non tolgono nulla alla magia della letteratura, del teatro, della pittura.
Queste sfaccettature mostrano quanto sia fuorviante accusare di “riduzionismo”, o di “scientismo”, qualsiasi tentativo di indagine naturalistica sulla mente umana.
Chi intravede una minaccia ai fondamenti della morale, e persino della “dignità umana” nelle teorie neuroscientifiche, forse nutre una fiducia eccessiva nella biologia, confondendo il condizionamento biologico con una determinazione inflessibile.

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