Farmaci antidepressivi nella pratica psichiatrica: efficacia reale

area scientifica Giù le mani dai bambini Onlus

Paolo Migone

Psicoterapia e scienze umane, 2005, XXXIX, 3: 312-322

Riassunto

Riassunto. Viene discussa la ricerca di Kirsch et al. (2002a) pubblicata su Prevention & Treatment in cui sono stati esaminati tutti i 47 studi clinici randomizzati (RCT) presentati dalle case farmaceutiche alla Food and Drug Administration (FDA) per far approvare i sei più venduti inibitori selettivi del reuptake della Serotonina (SSRI) negli Stati Uniti. Questa ricerca ha dimostrato, tra le altre cose, che gli SSRI sono superiori al placebo di meno di 2 punti della scala di Hamilton per la depressione (che è di 62 punti nella versione di 21 item usata in molti di questi RCT). Questa superiorità al placebo, seppur statisticamente significativa, non è clinicamente significativa. Inoltre nel 57% degli studi gli SSRI erano uguali o inferiori al placebo, e gran parte di questi dati non sono mai stati pubblicati. Questi dati vengono discussi all’interno della più vasta problematica del ruolo dei farmaci e del rapporto interpersonale nella pratica psichiatrica.

PAROLE CHIAVE: farmaci antidepressivi, Selective Serotonin Reuptake Inhibitors (SSRI), placebo, Kirsch, Randomized Clinical Trials (RCT)


È fuori dubbio che gran parte di quello che fa uno psichiatra oggi è prescrivere farmaci. E i farmaci sono un’arma potentissima, basti pensare che va ad essi il merito principale dello svuotamento dei manicomi. Ma nella pratica terapeutica quotidiana di patologie tra le più diffuse quali la depressione, che peso hanno in realtà i farmaci?
Il “Documento sullo stato e sulle prospettive della psichiatria italiana”, che pubblichiamo in questo numero di Psicoterapia e Scienze Umane, tocca aspetti generali e importanti della complessità della pratica psichiatrica. È necessario intervenire isolando singoli aspetti, per approfondire la raggiera dei problemi toccati nel documento. Colgo questa occasione per discutere un aspetto molto specifico sul quale da tempo mi ero proposto di intervenire sulla rivista: l’uso e il significato dei farmaci antidepressivi nella pratica psichiatrica. In questo numero, tra l’altro, viene riproposto il pensiero di Balint, che fu così chiaro nel mostrare l’enorme importanza del rapporto interpersonale tra medico e paziente, individuando in modo preciso le coordinate di una “scienza” psichiatrica che altri continuano invece a vedere come regolata da variabili riduttive, distorcendone la natura secondo una concezione che senza ombra di dubbio si può definire antiscientifica.

Come è noto, da circa 15 anni è comparsa una nuova generazione di farmaci antidepressivi, gli inibitori selettivi del reuptake (o della ricaptazione) della Serotonina (Selective Serotonin Reuptake Inhibitors [SSRI]), che hanno meno effetti collaterali ma che sono molto più costosi dei precedenti antidepressivi (i triciclici), ai quali sono accomunati da un’efficacia simile o comunque non superiore. Questi farmaci si sono rapidamente diffusi in tutto il mondo anche grazie a grosse campagne pubblicitarie (si ricorderanno copertine di noti settimanali sulla “pillola della felicità”, best-sellers come Listening to Prozac, e così via – il Prozac, il primo SSRI ad essere prodotto, è stato uno dei farmaci più venduti nella storia della medicina). Le statistiche di alcuni anni fa parlavano di più di 7 milioni di americani abitualmente in cura con SSRI, e questa cifra oggi è sicuramente aumentata. Consumi altissimi sono presenti anche in Europa e nel resto del mondo, persino tra adolescenti: uno studio dell’Istituto Mario Negri ha dimostrato che in Italia 28.000 giovani sotto i 18 anni prendono antidepressivi, il 75% dei quali sono SSRI; negli USA il consumo di antidepressivi in bambini e adolescenti nel decennio 1987-96 è triplicato, e sarebbero un milione i ragazzi che nel 2000 ne avrebbero fatto uso (non si dimentichi che gli effetti collaterali di questi farmaci nella fascia giovanile sono molto meno studiati). Se si considera che negli ultimi 15 anni la diffusione degli SSRI ha fatto raddoppiare il consumo di antidepressivi in Italia, il passaggio di denaro dai cittadini alle case farmaceutiche è di proporzioni enormi.

Ma quanto sono efficaci questi farmaci? Non si può certo entrare in questo argomento raccontando aneddoti o esperienze cliniche personali, ma esponendo dati, “evidenze” ben controllate secondo la logica della Evidence-Based Medicine (EBM), cioè guardando ttentamente gli studi clinici controllati randomizzati (Randomized Clinical Trials [RCT]). Gli RCT dovrebbero essere utilizzati dai medici come una guida, un po’ come i contadini e i marinai leggono le previsioni del tempo. Irving Kirsch, uno psicologo americano che nutriva dei dubbi sulla reale efficacia degli SSRI e da tempo era interessato all’effetto placebo (vedi Kirsch, 1978, 1985, 1990, 1997, 2000, 2003; Kirsch & Sapirstein, 1998; Kirsch & Rosadino, 1993), ha voluto andare a fondo di questo problema e nel 2002 ha pubblicato uno studio che ha fatto discutere negli ambienti specialistici (Kirsch et al., 2002a). A mio parere non se ne è
parlato abbastanza, forse non a caso dati i forti interessi economici in gioco, per cui vorrei riprendere qui il discorso.

Kirsch e i suoi collaboratori hanno voluto risalire alla fonte delle informazioni utilizzate per l’approvazione degli SSRI negli Stati Uniti. Questo è stato possibile grazie al Freedom of Information Act, una legge americana che tutela il diritto di accesso alle informazioni da parte dei cittadini. Kirsch si è rivolto alla Food and Drug Administration (FDA), l’organismo federale che controlla l’approvazione dei farmaci, e ha chiesto di poter vedere tutti gli RCT sottoposti alla FDA per l’approvazione dei sei antidepressivi SSRI più frequentemente prescritti nella popolazione. Questi sei farmaci erano i seguenti (tra parentesi vi sono i nomi con cui sono stati commercializzati in Italia – data la continua commercializzazione di nuovi prodotti, l’elenco può essere incompleto): Citalopram1 (Elopram, Pramexil, Seropram), Fluoxetina (Azur,
Clexiclor, Cloriflox, Deprexen, Diesan, Flotina, Fluoxeren, Fluoxin, Grinflux, Prozac, Serezac, Zafluox
), Nefazodone2 (Reseril, non più in commercio perché ha provocato alcuni decessi da danno epatico), Paroxetina (Daparox, Eutimil, Sereupin, Seroxat), Sertralina (Serad, Tatig, Zoloft), e Venlafaxina3 (Efexor, Faxine) (un settimo SSRI, non incluso nella ricerca di Kirsch, è la Fluvoxamina [Fevarin, Dumirox, Maveral]). La FDA dovette consegnare a Kirsch tutto il materiale che possedeva, e precisamente la documentazione sugli RCT (47 in tutto) sponsorizzati dalle case farmaceutiche allo scopo di far approvare, con una pratica chiamata New Drug Application (NDA), questi sei SSRI. Kirsch e i suoi collaboratori esaminarono attentamente questi 47 RCT e nel luglio 2002 pubblicarono i loro risultati sulla rivista Prevention & Treatment, pubblicata dall’American Psychological Association (questa rivista è interamente on-line, per cui chiunque può consultarla: vedi il sito Internet http://journals.apa.org/prevention/volume5/toc-jul15-02.htm). La rivista ha poi invitato nove noti psicofarmacologi per discutere criticamente la ricerca di Kirsch, e nessuno ha messo in dubbio questi dati, la discussione verteva solo sulla loro interpretazione.

Va ricordato brevemente, soprattutto per il lettore non medico, cos’è un RCT. Un RCT consiste nel prescrivere a un gruppo di volontari un farmaco di cui si vuole studiare l’efficacia, e a un altro gruppo di volontari un placebo (cioè una sostanza inerte della stessa forma, colore, odore e sapore del farmaco), e poi nel paragonare i risultati di questi due interventi con un’unica scala di valutazione (nel caso di tutti gli studi sugli SSRI era sempre la Scala di Hamilton per la Depressione, per cui il paragone è stato facile). Va aggiunto che le somministrazioni devono essere “in doppio cieco” (double blind), cioè né il paziente né chi somministra il farmaco (o il placebo) conoscono quale è il farmaco e quale è il placebo, altrimenti le aspettative inconsce influenzano il risultato (il doppio cieco serve appunto per controllare l’effetto placebo, che è molto alto in tutte le terapie, si pensi che è stato dimostrato anche in alcune terapie chirurgiche).

Ebbene, cosa hanno trovato Kirsch e i suoi collaboratori? Hanno trovato che il miglioramento dovuto al placebo aveva una dimensione pari all’82%, e quindi che solo il 18% della risposta positiva era dovuta all’SSRI, la rimanente tutta al placebo. Un altro modo di dire la stessa cosa è che solo il 10-20% dei pazienti depressi che migliorano sente l’effetto del farmaco (da cui ne consegue che l’80-90% sente solo l’effetto placebo). Inoltre, anche se la dimensione dell’effetto positivo raggiungeva la significatività statistica, la superiorità del miglioramento dovuta al farmaco rispetto a quello dovuto al placebo era di meno di 2 punti della scala di Hamilton (che è di 50 punti nella versione a 17 item, e di 62 punti nella versione di 21 item usata in molti degli RCT esaminati). Dunque l’effetto dell’SSRI, se è vero che si aggiunge all’effetto del placebo aumentando l’efficacia, lo fa però in un modo “clinicamente insignificante” (per un approfondimento sulla differenza tra “significatività statistica” e “significatività clinica”, vedi, tra gli altri: Kukla, 1989; Jacobson & Truax, 1991; Jacobson et al., 1999; Fonagy, 2002, p. 45).

Lo studio di Kirsch insomma mette bene in luce il ruolo imponente dell’effetto placebo degli antidepressivi, cosa che per la verità non era del tutto nuova (si pensi agli studi sull’Iperico [l’“erba di San Giovanni” o St. John’s Wort], e anche a certi reperti del noto Collaborative Research Program sulla depressione, lo studio multicentrico sponsorizzato dal National Institute of Mental Health [NIMH] degli Stati Uniti [Elkin et al., 1989], che è probabilmente la più grande e più costosa ricerca in psicoterapia mai attuata e che ha prodotto la maggiore quantità di dati).

Kirsch e collaboratori scoprirono però anche che più della metà (il 57%) degli studi finanziati dalle case farmaceutiche allo scopo di dimostrare l’efficacia degli SSRI fallirono, cioè dimostrarono che gli SSRI erano uguali o inferiori al placebo, e gran parte di questi dati non furono mai pubblicati: è stato possibile conoscerli solo grazie all’esame del materiale che la FDA dovette consegnare grazie al Freedom of Information Act. L’esclusione di questi studi è un dato importante che spesso viene trascurato. Inoltre è stato dimostrato che non vi è un aumento di efficacia parallelamente all’aumento della dose di SSRI, altro dato che depone in favore dell’ipotesi della loro efficacia sostanzialmente come placebo.

Va ricordato che lo studio di Kirsch riporta dati medi, per cui è certamente possibile che un SSRI, anche se poco efficace nella maggioranza dei casi, sia invece molto efficace con determinanti pazienti, ad esempio con depressi gravi. Ma le evidenze contenute nei documenti della FDA contraddicono questa ipotesi e dimostrano che anche i pazienti gravi traggono grande vantaggio dal placebo. Non solo, ma se per un sottogruppo di pazienti la differenza media tra farmaco e placebo fosse superiore a 2 punti della scala di Hamilton, allora ne conseguirebbe che dovrebbe essere meno di 2 punti per i rimanenti pazienti. Se ad esempio la differenza fosse di 4 punti per la metà dei pazienti (punteggio che comunque sarebbe ancora molto basso come significatività clinica), allora sarebbe di 0 punti per l’altra metà, dove l’effetto dell’SSRI potrebbe essere addirittura inferiore al placebo (va ricordato comunque che si parla sempre di dati aggregati, per cui non si può escludere che per un determinato paziente, diversamente dalla maggioranza, l’SSRI funzioni meglio).

Un altro reperto dello studio di Kirsch è che, contrariamente al buon senso, la stabilità della risposta al farmaco non è maggiore di quella al placebo, anzi, all’uso del farmaco seguono maggiori ricadute che al placebo. Inoltre, non andrebbe sottovalutata del tutto l’ipotesi che la superiorità del farmaco possa essere dovuta semplicemente ad un potenziamento dell’effetto placebo: infatti, grazie agli effetti collaterali molti pazienti ad un certo punto possono accorgersi che stanno prendendo il farmaco, e quindi inconsciamente possono aumentare l’effetto placebo.

Nella discussione che è seguita allo studio di Kirsch nessuno, come si diceva, ne ha messo in dubbio i risultati. Addirittura alcuni autori (Hollon et al. [2002], della Vanderbilt University) hanno ammesso che quello che ha scoperto Kirsch era il loro “piccolo sporco segreto” (dirty little secret). La discussione verteva su come interpretare i dati e soprattutto su cosa fare. Vi è chi ha suggerito che si potrebbe continuare ad usare gli SSRI, dato che hanno un effetto placebo che non va trascurato e che può essere sommamente utile per tanti pazienti che soffrono. Questo effetto non potrebbe essere raggiunto con placebo espliciti, dato che un placebo è tale se viene spacciato come farmaco (e gli SSRI per di più godono del fattore suggestivo dovuto a una grande e costosa campagna pubblicitaria). Questa logica ovviamente apre più problemi di quanti ne risolva, e soprattutto non è proponibile in un’epoca molto sensibile alla bilancia costi-benefici e che si vorrebbe governata dalla logica della EBM. Già vasti settori della popolazione usano, e con grande profitto, i fiori di Bach o l’omeopatia, solo che, essendo noti placebo (tranne che per la soggettività di chi li usa), verosimilmente ottengono “solo” l’82% del miglioramento che potrebbe produrre un farmaco. Kirsch suggerisce un’altra possibilità, quella di usare interventi molto meno costosi, come la ginnastica e la “biblioterapia”, che hanno un effetto terapeutico dimostrato per la depressione, anche se minimo (quindi non tanto diverso da quello degli SSRI), ma che sommato al placebo può essere grande e che fanno comunque bene (l’esercizio fisico migliora la salute, i libri ampliano le conoscenze in termini di psicoeducazione), senza rischiare di provocare gli effetti collaterali descritti nei foglietti illustrativi degli SSRI (impotenza, diarrea, nausea, anoressia, sudorazione, irritabilità, tremore, perdita di memoria, emorragie, ansia, eccitamento maniacale, disturbi del sonno, attivazione di idee suicidarie, ecc.).

Vorrei aggiungere una ulteriore osservazione, spesso a mio parere non sufficientemente sottolineata: ammettendo pure che gli SSRI siano molto efficaci, occorrerebbe vedere a chi vengono somministrati nella pratica clinica reale. Gli effetti collaterali di questi farmaci, anche se possono essere sgradevoli, sono però inferiori a quelli degli antidepressivi della generazione precedente (i triciclici ad esempio spesso provocavano secchezza in bocca e una fastidiosa stitichezza), e questo li rende molto maneggevoli (tanto che si può quasi dire
che il pregio degli SSRI non sia quello di “fare bene”, ma di “non fare male”, quindi di lasciar libero spazio all’effetto placebo, un po’ come accade per quei tanti farmaci quasi sempre inutili – come le vitamine, i ricostituenti, ecc. – che spesso vengono prescritti, più o meno consapevolmente, a scopo suggestivo). La maneggevolezza degli SSRI, e anche il fatto che sono diventati rimborsabili, ne facilita grandemente l’uso per tantissime sintomatologie caratterizzate da sofferenza psicologica, mali esistenziali, ecc., insomma tutti quei quadri
che facilmente vengono etichettati in senso lato come “depressivi” sia da medici che da pazienti (non va dimenticato poi che vengono indicati anche per altre patologie quali panico, disturbo ossessivo-compulsivo, bulimia, ecc., e recentemente anche in psichiatria infantile). La pronta somministrazione di un SSRI, supportata dalla efficacia propagandata dai rappresentanti farmaceutici e nei congressi scientifici (anch’essi, come è noto, sponsorizzati dalle case farmaceutiche) rassicura molto e razionalizza il senso della visita specialistica
(e della parcella), facendo tornare a casa il paziente nelle migliori condizioni per essere soggetto al benefico effetto placebo. Insomma, per questa categoria di pazienti (quelli cioè senza depressione maggiore o affetti dalla molto più diffusa “depressione caratterologica”, in asse II), che sono poi una buona parte dei pazienti che si rivolgono ad uno psichiatra – e anche quei 2/3 dei pazienti del medico di famiglia di cui parlava Balint – sicuramente si può fare l’ipotesi che gli SSRI funzionino sostanzialmente grazie all’effetto placebo.

Una pratica psichiatrica basata esclusivamente sull’uso di farmaci non è altro che un aspetto di una più vasta cultura medica altrettanto basata, come Balint ci ha insegnato, su una concezione antiscientifica della malattia, che ignora la psicodinamica dell’insorgenza della sintomatologia e le implicazioni importantissime del rapporto interpersonale (ironicamente, sono proprio gli RCT, bandiera della cultura scientifica, che hanno dimostrato in modo inequivocabile l’effetto placebo, cioè l’enorme importanza dell’influenza del rapporto interpersonale). Come ci ricorda Silvio Garattini (2005) dell’Istituto Mario Negri, in un recente articolo sull’organo della Federazione Nazionale Ordini Medici Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCeO), purtroppo tutta la medicina subisce l’influenza di questa cultura basata sull’ottimismo esagerato circa l’effetto dei farmaci. La formazione che ricevono gli studenti all’università, l’informazione dell’industria farmaceutica e la pressione dei pazienti sono tre
forze che si coalizzano affinché questo stato di cose continui. Ogni giorno i medici italiani firmano 5 milioni di prescrizioni farmaceutiche, e 30.000 informatori farmaceutici, in una vera e propria “educazione continua in medicina”, cercano di convincere i medici ad usare i loro farmaci non in modo neutrale, ma guidati dall’interesse aziendale il cui scopo è di aumentare il fatturato, non certo di fare beneficenza. Per varie pressioni, i farmaci vengono approvati quando sono ancora “immaturi”, cioè quando non sono stati studiati a fondo, ed essenzialmente in rapporto alle tre caratteristiche di “qualità, efficacia e sicurezza”, ma senza che vengano fatti studi comparati che dimostrino la loro superiorità rispetto a farmaci già in commercio. Così le case farmaceutiche decantano i propri farmaci sulla base di presunte proprietà minori che nulla hanno a che fare con la loro effettiva utilità. Va detto poi, come ha mostrato anche la ricerca di Kirsch, che gli studi che non riescono a dimostrare l’efficacia di un farmaco spesso non vengono menzionati o neppure pubblicati. Uno dei motivi per cui una ricerca che non è riuscita a dimostrare l’efficacia di un farmaco può non essere inviata ad una rivista per la pubblicazione può dipendere dal fatto che ciò va contro gli interessi di chi ha finanziato la ricerca, che quasi sempre è la casa farmaceutica che produce quel farmaco.

Può non essere un caso, a questo proposito, che la ricerca di Kirsch, seppure di estremo interesse, non sia stata pubblicata da una rivista di psichiatria, ma da una rivista di psicologia, e per di più non privata ma interamente finanziata dalla American Psychological Association (questa rivista, tra l’altro, un anno dopo l’uscita dell’articolo di Kirsch è stata chiusa appunto perché era troppo costoso il suo mantenimento, e questo nonostante fosse interamente elettronica e quindi già esonerata dai costi della carta, della diffusione, ecc.). Praticamente non esiste al mondo una rivista di psichiatria che non sia finanziata dalle case farmaceutiche, o direttamente o tramite la pubblicità, perché i costi sono molto alti, e il direttore di una rivista può non sentirsi a suo agio nel pubblicare una ricerca che colpisce così tanto gli interessi di chi permette la sopravvivenza del proprio progetto editoriale (rarissime sono le riviste, come ad esempio Psicoterapia e Scienze Umane, totalmente indipendenti da pressioni economiche di qualche tipo). Questi condizionamenti sono talmente importanti che, come Garattini ricorda, è stato dimostrato che i lavori che riportano effetti positivi di un farmaco hanno tre volte più probabilità di essere pubblicati rispetto a quelli che riportano effetti negativi o nulli, e questo di per sé produce un importante effetto di distorsione. Non a caso recentemente i direttori delle più prestigiose riviste mediche, riuniti nell’International Committee of
Medical Journal Editors
(ICMJE), in un editoriale congiunto, pubblicato simultaneamente su molte riviste, che segue ad una dichiarazione unanime sul bisogno di trasparenza nella ricerca clinica (vedi ad esempio De Angelis et al., 2004, 2005), richiedono che ricercatori e case farmaceutiche registrino in un database internazionale tutte le sperimentazioni cliniche al momento della loro attivazione (cioè non dopo, a seconda dei risultati ottenuti), pena la non pubblicazione dei risultati di queste ricerche. Anche la Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sostiene questo appello, e nell’aprile 2005 ha proposto gli standard minimi che gli autori delle ricerche dovrebbero registrare (vedi il sito Internet ttp://www.who.int/ictrp/en); negli Stati Uniti si sta pensando addirittura ad una legge che renda obbligatoria questa registrazione in un database del National Institute of Health (NIH) (vedi il sito Internet http://
www.clinical trials.gov).

Ogni giorno gli italiani spendono di tasca propria 17 milioni di euro per farmaci di dubbia utilità, in molti casi esclusi dal Prontuario Farmacoterapeutico Nazionale (PFN) perché dimostrati inutili. Inoltre spesso viene conosciuto solo il nome commerciale del farmaco, dimenticando il nome generico o equivalente, col risultato che si spendono molti più soldi di quanti se ne potrebbero spendere. La farmacovigilanza poi, almeno in Italia, è ancora a uno stato embrionale, e secondo il Ministero della Salute ogni giorno 100 pazienti in Italia vengono ricoverati per tossicità da farmaci.

Ma, per tornare alla terapia non farmacologia della depressione, come sottolinea anche Kirsch sappiamo che non esistono solo la ginnastica e la biblioterapia, esiste anche la psicoterapia. E anche qui a mio parere troppo spesso, e non a caso, si omette di dire che ormai tutte le ricerche meta-analitiche hanno dimostrato che nella cura della depressione la psicoterapia è indiscutibilmente superiore ai farmaci. Tra le tante ricerche, cito la review meta-analitica di Wexler & Nelson (1993) sulla terapia ambulatoriale della depressione maggiore pubblicata sull’International Journal of Mental Health, che ha dimostrato che la psicoterapia risulta essere nettamente superiore ai farmaci: il 58% dei pazienti trattati solo con psicoterapia mostra un risultato positivo contro il 46% di quelli trattati solo con farmaci, e la percentuale dei successi sale al 64% se la psicoterapia è combinata a farmaci. Non solo, ma la superiorità della psicoterapia aumenta ulteriormente se si considera il numero dei drop-out, che nei pazienti trattati solo con farmaci è il 26% mentre per i pazienti in psicoterapia il 14% e per quelli in terapia combinata il 28%. La maggiore efficacia della psicoterapia nella depressione rispetto agli psicofarmaci, soprattutto al follow-up, è sottolineata anche da molte altre autorevoli review più recenti (si vedano ad esempio le varie edizioni del Bergin and Garfield’s Handbook of Psychotherapy and Behavior Change, l’ultima delle quali, la quinta, curata da Lambert, 2004; vedi anche Migone, 1996, p. 198); è ben nota inoltre l’ipotesi che i farmaci antidepressivi ed ansiolitici possano indurre una sorta di dipendenza e predisporre ad un aumento di recidive e alla cronicità (si vedano ad esempio i lavori di G.A. Fava, 1994, 1995, 2003; per un dibattito, vedi Walsh et al., 2002; M. Fava et al., 2003; Holbrook & Goldsmith, 2003; Portuges, 2003; Moncrieff & Kirsch, 2005).

Come dicevo, ritengo che i reperti dello studio di Kirsch, così come quelli dei tanti altri studi che hanno messo in evidenza la straordinaria importanza dell’effetto placebo, non debbano essere ignorati perché fanno riflettere sulla vera natura della psichiatria. Essa è una pratica da cui è ben difficile eliminare l’influenza della persona del terapeuta, per cui questa influenza va studiata ed utilizzata nel modo più sofisticato possibile. In fondo, si può dire che la psicoterapia sia la disciplina che ha cercato di studiare, scomporre e utilizzare al meglio l’onnipresente effetto placebo, e l’impresa inaugurata da Freud più di un secolo fa mirava proprio a verificare se e come fosse possibile ottenere risultati migliori e più duraturi di quelli dovuti alla inevitabile suggestione presente in ogni rapporto terapeutico.

1 Del Citalopram è stato poi prodotto l’isomero levogiro Escitalopram (Cipralex, Entact).
2 Il Nefazodone è in realtà un Serotonin Antagonist and Reuptake Inhibitor (SARI)
3 La Venlafaxina è un Selective Serotonin and Norepinephrine Reuptake Inhibitor (SSNRI)


Abstract (In english)

REAL EFFICACY OF ANTIDEPRESSANT DRUGS IN PSYCHIATRIC PRACTICE. Kirsch et al. (2002a) studied all 47 randomized clinical trials (RCT) submitted by pharmaceutical companies to the U.S. Food and Drug Administration (FDA) for approval of the six most prescribed Selective Serotonin Reuptake Inhibitors (SSRI) antidepressants. The mean difference between drug and placebo was less than 2 points on the 21-item (62-point) Hamilton Depression Scale (which is the version used in many of the these RTCs). This superiority to placebo, although statistically significant, was not clinically significant. Furthermore, 57% of the trials funded by the pharmaceutical industry failed to show a significant difference between drug and placebo. Most of these negative data were not published and were accessible only by gaining access, thanks to the Freedom of Information Act, to FDA documents. This research is discussed in light of the wider problem of the roles of medications and interpersonal relationship in psychiatric practice.

KEY WORDS: antidepressants drugs, Selective Serotonin Reuptake Inhibitors (SSRI), placebo, Kirsch, Randomized Clinical Trials (RCT)


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