2004 Andrew Herxheimer and Barbara Mintzes;

In questa relazione si vogliono rendere noti i potenziali danni che può provocare l’uso di antidepressivi in pazienti giovani.

Autori: Andrew Herxheimer and Barbara Mintzes; 9 Park Cresc., London UK N3 2NL; Andrew_Herxheimer@compuserve.com

Università/laboratorio: Cochrane Collaboration, London, England (Herxheimer); Centre for Health Services and Policy Research, University of British Columbia, Vancouver, BC (Mintzes).

Abstract: Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) ed altro, più nuovo, antidepressivi sono stati considerati come il trattamento di  scelta primaria nella cura della depressione, ed poco spazio é stato lasciato per le cure alternative  non farmacologiche quali la terapia cognitiva e del comportamento. È comprensibile, allora, che i lettori ed i genitori nel Regno Unito sono stati spaventati da un warning recente dal loro ente  nazionale  competente (Medicines and Healthcare products Regulatory Agency) che gli  SSRI sono in gran parte inefficaci nel trattamento della depressione maggiore nei bambini ed adolescenti e che possono causare comportamenti d’auto-lesionismo e suicidialità. Ma allora perché c’è voluto così tanto per scoprire questa mancanza di beneficio ed il potenziale danno?

Parte della risposta si trova nel gap che esiste fra la qualità delle evidenze necessarie per commercializzare un farmaco  e i  bisogni reali di trattamento dei pazienti. Un primo episodio di disordine depressivo maggiore dura tipicamente 7-9 mesi e la ricorrenza è comune. Tuttavia, la durata della maggior parte delle prove cliniche controllate e randomizzate degli antidepressivi prima dell’introduzione sul mercato è soltanto di 6-8 settimane. Si utilizza come misura d’esito un cambiamento nel punteggio dei pazienti su un questionario  somministrato dal medico quale la scala di valutazione della depressione quale l’Hamilton Depression Rating Scale (HAM-D). Queste scale uniscono molti risultati differenti ed è raramente chiara dalle relazioni sulle prove cliniche in esattamente quali vie i pazienti si sono sentiti meglio o peggio. La scala di HAM-D usa una singola domanda per valutare il rischio di suicidio, una misura che David Healy ha apertamente criticato come inadeguata. Inoltre, sovente i dati sulle reazioni avverse al farmaco sono frettolose. Le prove cliniche che precedono la commercializzazione sono condotte su una ristretta popolazione di pazienti che rappresentano inadeguatamente i consumatori di un farmaco una volta che è sul mercato. Inoltre, spesso il processo di approvazione del farmaco risulta così segreto da rendere medici e pazienti inconsapevoli sull’efficacia e sulla sicurezza inadeguate di esso. Questa politica tiene in gran conto gli interessi commerciali anzichè quelli dei pazienti. Anche la sorveglianza  postmarketing sull’efficacia e sicurezza lasciano molto a desiderare. In molte nazioni, incluso il Canada, ci si affida principalmente a rapporti volontari di sospetto ADR per monitorare i farmaci una volta che sono sul mercato. Il sistema Yellow Card del UK è ritenuto uno dei migliori al mondo per la vigilanza sulle reazione avverse, ed ha un tasso di segnalazioni molto più alto di quello che noi raggiungiamo in Canada, anche se appare inadeguato. Medawar e Herxheimer analizzarono 1555 Yellow Card anonime che riportavano sintomi da interruzione (1370), comportamenti suicidali (91), o ferite e avvelenamenti (94) durante la terapia con paroxetina tra il 1990 e il 2000. Questo studio comparava la qualità dell’informazione nella Yellow Card con quelle ottenute direttamente dai pazienti in 862 messaggi che sono stati spediti in un forum di discussione su un sito web tra il 2002 e il 2002, e in 1374 emails spedite alla BBC dopo la messa in onda di un documentario televisivo sulla paroxetina. Dall’analisi di questi rapporti si evidenziarono tipi d’esperienze prima sconosciute coincidenti con l’incremento del dosaggio e l’interruzione della terapia. 

I requisiti regolatori per l’evidenza dell’efficacia dovrebbero riflettere adeguatamente gli esiti d’importanza fondamentale per i pazienti. L’accettazione d’ampi criteri d’esclusione per la fase III delle prove cliniche pre-market richiede ulteriori riflessioni. C’é bisogno di allargare il nostro modo di intendere il consenso informato nelle prove cliniche.  Può un paziente essere un vero paziente  informato in una prova clinica se a lui o lei viene impedito di conoscere i suoi dati?  Tutti i partecipanti alle prove cliniche – e il vasto pubblico – dovrebbero avere accesso ai risultati delle prove cliniche.

Pubblicazione: CMAJ • February 17, 2004; 170 (4)

Riferimenti: http://www.cmaj.ca/cgi/content/full/170/4/487

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